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mercoledì 18 marzo 2015

BRACCIALETTI ROTTI





Braccialetti rossi
(serie tv, stagione 2)

Braccialetti rossi è una serie che funziona. Meno rispetto alla prima stagione, però funziona. È una visione diabolica ed è proprio questo il motivo del suo successo. Se dalle immagini dei protagonisti pelati vi immaginate che parli di un gruppo di giovani naziskin vi dico che no, parla invece di ragazzini malati, per lo più di cancro. A questo punto potrete immaginarvi una serie che punta sul patetico, sul melodrammatico ed è proprio così. Il suo bello è quello. L'altro pregio è il coinvolgimento che riesce a creare, pur con tutti i suoi limiti.

Non sono uno di quei fan che gridano "Oh mio Dio Braccialetti Rossi!!!". Mentre la guardo riesco a riconoscere tranquillamente i suoi difetti. Il più evidente, oltre agli attori adulti che fanno quasi tutti pena, è una colonna sonora terrificante che conferma quanto di pessimo sentito nel corso della season 1. Le canzoni di Niccolò Agliardi usate per la sigla e come accompagnamento di alcune scene sono una roba che al confronto Cristina D'Avena sembra Bob Dylan. E poi ci sono pezzi di Emma, Paola Turci, Francesco Facchinetti e c'è persino Vasco. Per fortuna Davide (Mirko Trovato), il ragazzino suo fan, ha lasciato le penne sotto i ferri durante la prima stagione. Per fortuna non che sia morto, poverino, ma che almeno non offra più spunti per far sentire i pezzi del Blasco, se non un accenno di “Ogni volta” che gli altri braccialetti rossi sopravvissuti gli dedicano durante un falò in spiaggia.

mercoledì 12 febbraio 2014

BRACCIALETTI ROSSI, LA SORPRENDENTE FICTION… PARDON SERIE TV DI RAI 1




Braccialetti rossi
(serie tv, italia 2014)
Rete: Rai Uno
Regia: Giacomo Campiotti
Ispirata alla serie spagnola: Polseres vermelles
Cast: Carmine Buschini, Brando Pacitto, Aurora Ruffino, Mirko Trovato, Pio Luigi Piscicelli, Lorenzo Guidi, Laura Chiatti, Michela Cescon, Simonetta Solder, Carlotta Natoli, Vittorio Viviani, Federica De Cola, Ignazio Oliva, Francesca Valtorta, Giampaolo Morelli, Lele Vannoli
Genere: malato
Se ti piace guarda anche: Quasi amici, Amico mio, Grey’s Anatomy

Un gruppo che si rispetti deve avere al suo interno 6 elementi:
- Il leader
- Il viceleader
- Il bello
- Il furbo
- L’imprescindibile
- La fig ragazza

Questa almeno è la teoria espressa nella nuova serie di Rai Uno Braccialetti rossi. A questo punto vi domanderete due cose:
1) Cannibal, stai davvero parlando di una serie in onda su Rai Uno?
2) Che differenza c’è tra il leader e l’imprescindibile?

Risposta 1) Ebbene sì. Ogni tanto succede. Una volta ogni 2 o 3 anni, però succede. E che mi piacesse pure non succedeva da tipo 10 anni, dai tempi de La meglio gioventù. Non chiamatela fiction, comunque, perché questa è una serie a tutti gli effetti, composta da 6 episodi della durata di un’ora e mezzo circa ciascuno.

Risposta 2) Il leader può essere sostituito, l’imprescindibile no. Senza di lui, il gruppo non esiste. Ad esempio, il PD ha un leader intercambiabile, Forza Italia invece cosa sarebbe senza l’imprescindibile e incandidabile B?

A questo punto sorge un’altra domanda: questa teoria è vera o meno?
Prendiamo come esempio i Beatles, il gruppo più famoso del mondo, anche se nella serie il termine “gruppo” non va inteso in senso strettamente musicale, quanto più che altro come compagnia di amici. Nei Beatles possiamo considerare Paul McCartney come il leader, Ringo Starr come il bello (a suo modo), George Harrison come il furbo, e John Lennon come il vice leader e soprattutto l’imprescindibile. Quando è arrivata la ragazza, Yoko Ono, tutto è finito in pezzi. Tralasciando quest’ultimo dettaglio, la teoria bene o male è veritiera. O se non altro lo è nel caso di questa fiction… volevo dire serie di Rai Uno.

Braccialetti rossi funziona e funziona soprattutto grazie ai 6 elementi del gruppo, che presentano 6 tipi di persona in cui tutti possiamo riconoscerci, almeno un pochino.
In Braccialetti rossi abbiamo Leo (Carmine Buschini), un ragazzo malato di cancro che molto democraticamente si è auto proclamato leader del gruppo. Sì, Leo è malato di cancro. Non ve l’ho ancora detto?
Ebbene, questa serie è ambientata nel reparto pediatrico, diciamo più che altro adolescenziale, di un ospedale. Una location triiiiiste per una serie che un po’ di tristezza addosso in effetti la mette. Ti fa sentire un peso sullo stomaco per tutta la visione. Lo so che dicendo una cosa del genere potrei non invogliarvi molto alla visione, per quanto già si possa essere invogliati alla visione di una fiction… volevo dire serie di Rai Uno. Rai Uno ho detto, non ci credo manco io! Prendete però ciò che ho detto come un fatto positivo. Non ci sono infatti così tante serie in circolazione in grado di creare un’empatia con i personaggi tanto forte da farti stare male tu stesso per loro. Per fortuna sono presenti anche momenti più da comedy in grado di alleggerire la visione, oltre a un immancabile triangolo sentimentale.
E che, mi vuoi fare una serie senza un triangolone amoroso e dudù e dadadà?
Il triangolo qui è composto dal citato leader Leo, dal viceleader Vale (Brando Pacitto), il suo compagno di stanza pure lui malato di cancro, e dalla bella anoressica Cris, la ragazza del gruppo interpretata da Aurora Ruffino, già vista in Bianca come il latte, rossa come il sangue, pellicola dalle atmosfere e dal “tocco malaticcio” non dissimile da questo, e infatti il regista è lo stesso Giacomo Campiotti.

"Hey Laura, ma è vero quello che diceva Fabri Fibra in Vip in Trip?"
"E cos'è che diceva?"
"In pratica che sei una zoccola."
"Ah, quello? Non confermo e non smentisco..."
Prima che pensiate che Braccialetti rossi sia troppo un’italianata clamorosa, vi dico che c’è il trucco sotto.
Una serie tv originale su Rai Uno? Ma che davero?
Non proprio. Braccialetti rossi è il remake nostrano della serie spagnola Polseres vermelles che non ho visto, ma ho il sospetto che le idee migliori le abbiano prese da lì pari pari.
A far funzionare tutto come detto sono i 6 membri del gruppo, ragazzini malati cui il leader del gruppo Leo assegna un braccialetto rosso, quelli che a lui sono stati dati a ogni intervento chirurgico cui si è sottoposto. Tre personaggi ve li ho presentati, gli altri tre lascio a voi il piacere di scoprirli, anche se avverto subito le ragazze in ascolto che il “bello” del gruppo non è certo un figo della Madonna, ma è solo un bambinetto manco troppo carino, quindi tenete a bada gli ormoni.
Una nota positiva sono inoltre le interpretazioni dei 6 giovani attori, tutti molto spontanei e naturali. Meno bene invece alcuni adulti del cast, molto impostati e televisivi e sempre impegnati a caricare ogni parola che pronunciano. NON si recita così. Siamo su Rai Uno ma NON siamo in una soap-opera. NON siamo nella solita merdosa fiction. Tra gli adulti, la migliore è Laura Chiatti che a sorpresa se la cava molto bene. Alla faccia di chi come me la reputava solo una bella fregna.

"Già siamo malati e ci fate pure sentire Francesco Facchinetti?
E che è, ci volete morti subito?"
Una nota assolutamente negativa è invece la colonna sonora. Perché, anche in una serie valida come questa, dobbiamo sempre farci riconoscere come il terzo mondo musicale? Senza offesa per il terzo mondo dove ascoltano di sicuro della musica migliore di questa.
Tra i brani suonati vi sono pezzacci di Laura Pausini, Vasco Rossi, Emma Marrone… Ma possibile che i teenagers francesi ballino sulle note di Lykke Li (si veda La vita di Adele) e quelli italiani si sparino la Pausini? Con quella voce li fa schiattare immediatamente, ‘sti poveri ragazzini malati. Sono presenti poi anche una serie di brani originali composti apposta per Braccialetti rossi da Niccolò Agliardi e interpretati da gente come Francesco Facchinetti. Il risultato sono delle canzoncine degne de I Cesaroni. Roba da far sanguinare le orecchie ed essere ricoverati in ospedale insieme ai protagonisti di Braccialetti rossi, una serie, non una fiction, italiana che nonostante questa pecca sonora consiglio vivamente di seguire. Va in onda la domenica in prima serata su Rai Uno, altrimenti la trovate pure in rete che in rete si trova tutto e senza pubblicità in mezzo. Ma quest’ultima cosa io non ve l’ho mai detta.
Colonna sonora a parte, Braccialetti rossi riesce ad uscire dai soliti territori televisivi italioti e propone con un certo coraggio, e un piglio quasi alla Quasi amici, il tema della malattia. Dopo appena 3 puntate mi è talmente entrata sotto pelle ed è così contagiosa che pure io adesso sono malato. Sono dipendente da una serie tv di Rai Uno. Watanka!
(voto 8/10)

mercoledì 6 novembre 2013

BIANCA COME IL LATTE, MARRONE COME LA EMME




Bianca come il latte, rossa come il sangue
(Italia 2013)
Regia: Giacomo Campiotti
Sceneggiatura: Fabio Bonifacci, Alessandro D’Avenia
Cast: Filippo Scicchitano, Gaia Weiss, Aurora Ruffino, Luca Argentero, Romolo Guerreri, Gabriele Maggio, Roberto Salussoglia, Pasquale Salerno, Michele Codognesi, Flavio Insinna, Cecilia Dazzi
Genere: italian teen
Se ti piace guarda anche: Come te nessuno mai, I liceali

Un film italiano decente è una notizia. Un film italiano teen decente è un miracolo.
Adesso parlare di miracolo per un filmetto come Bianca come il latte, rossa come il sangue forse, ma solo forse, è esagerato, però rende bene la situazione allarmante del nostro cinema e ancor di più della rappresentazione degli adolescenti nel nostro cinema, così come nelle nostre serie tv.
Perché, esistono delle nostre serie tv?
Fiction. Volevo dire le nostre fiction.
Nostre?
Volevo dire vostre. Io mica le guardo. A parte I liceali, che per qualche tempo ho seguito e sì, ancora me ne vergogno.

"Cosa vuoi che ti suoni?"
"Guarda, qualunque roba, basta che non sia un pezzo dei Modà."
Bianca come il latte, rossa come il sangue è un film pieno di difetti. È parecchio ingenuo, infantile se vogliamo, nella sua rappresentazione dell’amore romantico, però alla fine l’amore liceale un po’ è davvero così, quindi gli si può perdonare qualche esagerazione perché fa tenerezza. A livello cinematografico, poi, non ci troviamo certo di fronte a qualcosa di favoloso e la regia di Giacomo Campiotti è giusto un filo sopra alla media delle fiction televisive. Però se non altro è un filo sopra.
La colonna sonora invece è qualcosa di ingiustificabile. Qualcosa di agghiacciante.
Inserire una canzone dei Modà significa voler male agli spettatori.
Inserire due canzoni dei Modà significa odiare gli spettatori.
Inserire tre canzoni dei Modà significa voler vedere gli spettatori morti.
Tra l’altro, i brani dei Modà trascinati dall’insopportabile voce del leader Kekko (non provate a scrivere il suo nome senza le K che si mette a piangere), sono inseriti nelle tre scene chiave della pellicola, quelle che dovrebbero rappresentare i vertici emotivi e invece risultano dei vortici che ti trascinano nello sconforto più totale. Pretendere di commuovere con delle canzoni dei Modà è come suonare la Marcia funebre a un party. O è come suonare un pezzo di Laura Pausini mentre si fa all’amore. Ti s’ammoscia subito. Laura Pausini è l’anti-Viagra. E i Modà sono l’anti-sentimento, oltre che l’anti-musica. I Modà non fanno commuovere, al limite fanno venire una commozione cerebrale.
Questo è un limite non da poco, anche perché in un film teen la soundtrack riveste un ruolo particolarmente importante. È l’ossigeno che la fa respirare. E i Modà sono il gas nervino.

Oltre alla urticante presenza dei Modà in colonna sonora, anche l’inizio della pellicola non lasciava ben sperare:

Ogni cosa è un colore. Ogni emozione è un colore. Il silenzio è bianco. Il bianco infatti è un colore che non sopporto: non ha confini. Passare una notte in bianco, andare in bianco, alzare bandiera bianca, lasciare il foglio bianco, avere un capello bianco...

Ma per favore! Una di quelle frasone da far cascare le palle che sembrano uscite da un biscotto della fortuna cinese. Oppure da un libro di Federico Moccia. Invece no. Il film è tratto da un romanzo di Cristina D’Avenia.
Ok, non si chiama davvero così. Si chiama Alessandro D’Avenia, ma io non ce la faccio a non chiamarlo Cristina D’Avenia, o al massimo Cristino D’Avenia. È più forte di me. Non riesco a trattenermi, così come il cantante dei Modà non riesce a trattenersi dal gridare anziché cantare. La smetto di avercela con i Modà?
Quasi. Dico ancora che a questo punto in Bianca come il latte manca giusto la Marrone come la Emme, volevo dire la Emma, e poi la colonna sonora Marrone come un’altra cosa era completa.
Ma con tutto questo concentrarsi sui Modà, del film in sé ho già parlato?

Per ora mi sono concentrato sugli aspetti negativi che, come avete visto, non sono pochi e non sono da poco. Eppure non mi sento di bocciare il film. Perché? Forse perché mi sono rammollito? O magari perché in gran segreto i Modà mi piacciono?
No. Il merito della (parziale) riuscita della pellicola sta nell’evitare, dopo l’incipit, eccessive moccianate e bimbominkionate varie. E soprattutto sta nei personaggi, fatti vivere (ATTENZIONE SPOILER e in un caso morire FINE SPOILER) dai bravi attori arruolati dalla produzione.
Più che la bianca come un cadavere del titolo, interpretata dalla rusa de cavei Gaia Weiss, un pochino troppo anonima per stare al centro di tutta la storia, c’è da segnalare un’altra convincente prova da parte di Filippo Scicchitano, uno che suscita una naturale simpatia. Per dire, uno come Nicolas Vaporidis con quella sua faccia da schiaffi suscita una naturale antipatia. Scicchitano invece si conferma perfetto per i ruoli da teenager cazzaro ma con del potenziale, come già dimostrato in Scialla! (Stai sereno), altra pellicola teen italiana a sorpresa non del tutto da buttare. C’è poi da segnalare la gradevole rivelazione Aurora Ruffino, che è la classica ragazza del banco accanto di cui innamorarsi, ben più della rossa Gaia Weiss. E inoltre c’è anche un sorprendente Luca Argentero. Che fosse qualcosa di più di un ex recluso del Grande Fratello cerebroleso l’aveva già dimostrato in passato, ma qui supera la prova del fuoco, alle prese con il personaggio più rischioso della vicenda: il prof amicone del protagonista, un Robin Williams de ‘noantri che, con le sue frasi tratte da qualche libro pronte per tutte le occasioni, rischiava di scadere nel ridicolo. Con un po’ d’ironia, il personaggio riesce invece a non essere del tutto una cagata pazzesca, così come il film.

"Sto male. Ho un tumore alle orecchie. Grazie tante, Kekko dei Modà!"
Nonostante nella seconda parte la pellicola rischi di precipitare nei territori del melodramma melenso, non lo fa del tutto. Riesce persino ad affrontare tematiche non certo semplici come il rapporto con Dio, la malattia e la morte in maniera non dico profondissima, ma nemmeno così sciocca o stereotipata. Ogni tanto il film prende qualche sbandata, ci sono delle scenette riempitivo che si sarebbero anche potute evitare, non tutto funziona alla grande no no no, la vicenda si sviluppa in una maniera parecchio prevedibile, eppure non sono riuscito a odiarlo, questo film. Avrei voluto farlo, visto che sentivo puzza di moccianata da 3 metri sopra il cielo di distanza e visto che del romanzo di Cristino D’Avenia da cui è tratto avevo sentito parlare in maniera terrificante, ad esempio dallo Zio Scriba. E soprattutto perché una pellicola con i Modà protagonisti della colonna sonora non mi sarei aspettato di promuoverla. Certo, con delle canzoni non dico belle ma dico anche solo “normali” nei momenti chiave al posto di quelle dei Modà, sarebbe potuto uscirne qualcosa di più emozionante. Però accontentiamoci. Questo è il massimo che possono offrire i teen movie nostrani oggi. D'altra parte, non si può avere tutto dalla vita. Ad esempio, sarebbe bello se si potesse non morire. E sarebbe ancora più bello se si potesse non avere i Modà a rovinare un filmetto italiano altrimenti quasi degno di nota.
(voto al film 6/10
voto alla colonna sonora 0/10)



lunedì 4 aprile 2011

La solitudine dei numeri Timi

La solitudine dei numeri primi
(Italia 2010)
Regia: Saverio Costanzo
Sceneggiatura: Saverio Costanzo e Paolo Giordano dal romanzo di Paolo Giordano
Cast: Luca Marinelli, Alba Rohrwacher, Aurora Ruffino, Vittorio Lomartire, Arianna Nastro, Tommaso Neri, Martina Albano, Isabella Rossellini, Filippo Timi
Genere: Moccia horror
Se ti piace guarda anche: Come Dio comanda, Profondo rosso, Io sono l’amore

Trama semiseria
Un tipo introverso e ai limiti dell’autismo + una tipa zoppa: sono questi i due protagonisti di questa particolare storia di amicizia e d’amore, di due solitudini che si incontrano, di due numeri primi che si fondono in un’addizione magnifica e bla bla bla.
Rimpiangete già Jack & Rose di Titanic?
Edward & Bella di Twilight?
Step & Babi di 3MSC?
Beh, adesso non esageriamo.

Recensione cannibale
Di fronte a un film come La solitudine dei numeri primi mi trovo parecchio combattuto. Da una parte mi è piaciuto, o almeno alcune cose mi sono piaciute, dall’altra mi ha infastidito. E anche parecchio. È una sensazione difficile da spiegare a parole ma so già che avrete inteso perché anche voi avrete provato qualcosa del genere, magari non nei confronti di questa specifica pellicola, ma probabilmente per un altro film oppure per un disco, un libro, o magari una persona. Perché ce ne sono di persone che lasciano combattuti...

Ne La solitudine dei numeri primi ci sono alcuni elementi davvero buoni. Soprattutto l’inizio, soprattutto la prima parte dalle tinte (Dario) Argento, soprattutto le musiche stile Goblin firmate dal sempre grande Mike Patton (Faith No More, Mondo Cane, Mr. Bungle, Fantômas, Tomahawk, Peeping Tom, la colonna sonora di Crank…). Non ho letto il libro best-seller di Paolo Giordano da cui è tratto (e non mi è nemmeno venuta voglia di farlo) ma a quanto ho sentito dire è apprezzabile pure l’aver aggiunto atmosfere horror del tutto non presenti nel romanzo, con un plauso quindi per il parziale coraggio che va al regista Saverio Costanzo (guardando il film ho cercato di mettere da parte il fatto che sia il figlio di Maurizio Costanzo Show, ma non credo di esserci riuscito).

Ci sono però anche altri elementi che invece vanno a cozzare con la riuscita della pellicola e provocano un gran nervoso, come dialoghetti campati per aria, una recitazione spesso troppo enfatizzata e sopra le righe più da soap opera che da cinema (Isabella Rossellini su tutti), più una serie di personaggi che sembrano una sorta di versione alternative e malaticcia (ma questi il sole l’hanno mai visto in vita loro?) di quelli dei romanzi di Moccia. La cosa che proprio non mi è piaciuta comunque è soprattutto la parte finale, che vorrebbe essere intima e intimista e invece è soporifera e telefonata. Dopo oltre un’ora costruita tra atmosfere angoscianti e quasi horror, una pessima caduta di stile, un tonfo che sgonfia tutta la vicenda e la riporta sui territori classici del cinema medio italiota (di merda, lasciatemelo dire).

Il cast di giovani e giovanissimi non è male (segnalo in particolare Aurora Ruffino) e Alba Rohrwacher sarà anche bravina ma non se ne può più di vederla in ruoli da caso umano. Del non altissimo livello di recitazione generale ci si rende conto però soprattutto quando irrompe in scena Filippo Timi. La sua è giusto un’apparizione da 30 secondi nelle vesti di clown malefico, ma in quei pochi istanti ruba la scena a tutti e si mangia l’intero film. Un cameo strepitoso da Heath Ledger de’ noantri che rappresenta il vertice assoluto di una pellicola a tratti intrigante, che dà qualche segnale vitale per il cinema italiano ma che alla fine non trova il coraggio di spingere le situazioni al limite e rimane come intrappolata in una solitudine da numeri primi, ma non da numeri uno.
(voto 6-)

Chiudo con una citazione musicale alla Mr. Ford
“La solitudine fra noi
questo silenzio dentro me
è l'inquietudine di vivere
la vita senza te
Ti prego aspettami perché
non posso stare senza te
non è possibile dividere
la storia di noi due
Laura Pausini - “La solitudine” -


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