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lunedì 21 luglio 2014

NOIAH




"Lo so, ho dei capelli improponibili.
Ma nella Bibbia il balsamo non viene mai menzionato..."
Noah
(USA 2014)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Darren Aronofsky, Ari Handel
Cast: Russell Crowe, Jennifer Connelly, Emma Watson, Ray Winstone, Anthony Hopkins, Douglas Booth, Logan Lerman, Leo McHugh Carroll, Kevin Durand, Nick Nolte, Mark Margolis, Marton Csokas, Finn Wittrock, Madison Davenport
Genere: bestemmia cinematografica
Se ti piace guarda anche: La passione di Cristo, The Fountain – L’albero della vita

ATTENZIONE FANATICI
Se siete fanatici religiosi, se portate la Bibbia sempre con voi, se andate a messa tutte le domeniche, o se siete Mel Gibson, potreste considerare questo post blasfemo. Proseguite la lettura soltanto a vostro rischio e pericolo, altrimenti fate sempre in tempo a tornare sul sito di Famiglia Cristiana.


In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
Dio poi creò tante altre belle cose, un sacco di animaletti, fino a che creò anche l’uomo, dicendo semplicemente: “Abracadabra, facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Ma mancava ancora qualcosa. Qualcosa di molto importante. A questo punto, Dio allora disse: “Sia la figa!”. Ed Emma Watson fu.


Per festeggiare la sua creazione più bella, Dio passò la domenica a masturbarsi furiosamente contemplando la sua immagine. Una volta stufatosi di guardarla mentre non faceva nulla, decise di creare un qualcosa per tenerla impegnata e così fece il cinema. Dopo aver creato il cinema e i film dei Lumière in cui non succedeva nulla, Dio decise di creare pure i registi e fu così che diede vita a Darren Aronofsky. Il cineasta americano realizzò una pellicola più bella dell’altra, da Pi greco – Il teorema del delirio a Requiem for a Dream, da The Wrestler a Il cigno nero, fino a che decise di dedicarsi a Noah, un lavoro tratto dalla Bibbia. Un progetto dalle ambizioni divine.

La storia di Noè e della sua arca la conoscete già tutti, vero?
Ehm… io veramente non la conoscevo proprio bene bene. Da bambino ho saltato qualche lezione di catechismo di troppo. Più in là con gli anni ho provato a rimediare alle mie lacune religiose e un giorno mi sono detto: “Leggiamoci un po’ sta Bibbia. Ci sarà una ragione se ha venduto milioni di copie…”
Ho iniziato a leggere qualcosa, ma ben presto ho rinunciato. Ragazzi, ma non l’ha mai detto nessuno?
La Bibbia è ILLEGGIBILE!
È un libro scritto in maniera davvero terrificante. Prendiamo un passaggio dalla Genesi in cui si parla proprio del protagonista di giornata, il simpatico (si fa per dire) Noè.

1. Il Signore disse a Noè: «Entra nell'arca tu con tutta la tua famiglia, perché ti ho visto giusto dinanzi a me in questa generazione. 2 D'ogni animale mondo prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina; degli animali che non sono mondi un paio, il maschio e la sua femmina. 3 Anche degli uccelli mondi del cielo, sette paia, maschio e femmina, per conservarne in vita la razza su tutta la terra. 4 Perché tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; sterminerò dalla terra ogni essere che ho fatto». 5 Noè fece quanto il Signore gli aveva comandato.
6 Noè aveva seicento anni, quando venne il diluvio, cioè le acque sulla terra. 7 Noè entrò nell'arca e con lui i suoi figli, sua moglie e le mogli dei suoi figli, per sottrarsi alle acque del diluvio. 8 Degli animali mondi e di quelli immondi, degli uccelli e di tutti gli esseri che strisciano sul suolo 9 entrarono a due a due con Noè nell'arca, maschio e femmina, come Dio aveva comandato a Noè.
10 Dopo sette giorni, le acque del diluvio furono sopra la terra; 11 nell'anno seicentesimo della vita di Noè, nel secondo mese, il diciassette del mese, proprio in quello stesso giorno, eruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono. 12 Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti.

A parte il fastidio provocato da tutti i numerini inseriti a ogni frase, ma vi sembra un libro scritto bene? Non c’è manco mezza descrizione o un minimo di introspezione psicologica dei personaggi. Niente. Al confronto della Bibbia, Tre metri sopra al cielo, Twilight e Cinquanta sfumature di grigio sono dei capolavori assoluti.
Tralasciando gli aspetti letterari, c’è qualcuno che può ritenere anche solo lontanamente verosimili i fatti in essa raccontati?
Eppure giusto qualche milione, per non dire qualche miliardo, di persone sulla faccia della Terra crede che quanto narrato nella Bibbia sia davvero successo. Prendiamo il passaggio “Noè aveva seicento anni.
Se quest’uomo ha 600 anni, voglio il numero del suo chirurgo plastico.


Prendiamo un altro passaggio: “Cadde la pioggia sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti.” Ma manco a Masone in Liguria, il posto meteorologicamente più sfigato del mondo, ha mai piovuto così tanto. Eddai.


In pratica La Sacra Bibbia è il più fantasioso romanzo fantasy di sempre. Roba che al confronto Il signore degli anelli può essere considerato puro neorealismo. Il regista Darren Aronofsky, chiamato a sé dalla voce di Dio, o più probabilmente da quella del Dio Denaro, ha così deciso di trattare le vicende bibliche come fossero una materia fantasy, chiamando attori come Emma "Hermione" Watson e Logan "Percy Jackson" Lerman e aggiungendo alcuni elementi fantastici al racconto, giusto per rendere le cose un po’ meno noiose (obiettivo non riuscito per niente), senza però nemmeno esagerare. Come potete leggere in questo articolo di Wired, le differenze tra quanto raccontato nella Bibbia e nel film non sono poi nemmeno troppe.

ATTENZIONE SPOILER
Per chi come me non avesse troppa dimestichezza con la Bibbia, rammento la vicenda di Noah in breve.
Noah è un giovane ragazzo di 600 anni che una notte, dopo una cena pesante a base di cibo piccante, fa dei sogni strani. Sogna che il mondo sta per finire a causa di un acquazzone particolarmente pesante. Nessuno gli crede.



Per prepararsi al diluvio universale, Noah si mette così a costruire una gigantesca arca e per farlo si fa aiutare da un gruppo di muratori giganti, di nazionalità rumena e albanese, ovviamente sottopagati. Noè in maniera molto generosa decide che nell’arca potranno accomodarsi solo lui, sua moglie, i suoi tre figli e quella sgnaccherona gigante della sua figlia adottiva, Emma Watson, per l’occasione ribattezzata la Porca di Noè, visto che dovrà accontentare gli appetiti sessuali di tutti e tre i suoi figli e pure i suoi. Insieme a loro possono venire anche un sacco di animali a coppie, un maschio e una femmina. Niente coppie gay. Noah vende così i biglietti ai vari animali, gonfiando i prezzi a dismisura. Gli altri umani cercano di acquistare qualche biglietto dai bagarini o in rete, ma niente. Non si trovano più. Sono sold out più di un concerto dei Rolling Stones.
A un certo punto, preso dalla follia, Noah Crowe si mette pure a cantare, credendo di essere ancora in Les Misérables.






A parte la sua famiglia, secondo Noah tutto il resto dell’umanità deve pagare per i propri peccati e morire in maniera brutale sotto la pioggia, scatenando le reazioni preoccupate della comunità internazionale.


Gli uomini provano a salvarsi in tutti i modi. C’è chi prega, c’è chi cerca di corrompere Noah, c’è addirittura chi manda Bruce Willis e Ben Affleck nello spazio…


Ma non c’è niente da fare. Viene persino organizzata un’agghiacciante battaglia che sembra uscita dal nuovo capitolo di Transformers girato da Michael Bay e invece no, si tratta davvero di una pellicola diretta da Darren Aronofsky. E se pure Darren Aronofsky si mette a realizzare certe porcate, non c’è più niente da fare. L’umanità è spacciata.

Il film di Aronofsky non è però solo questo. Fondamentalmente è anche la storia del villain più cattivo di tutti i tempi. Non mi riferisco tanto allo stesso Noah che dà il titolo alla pellicola, che pure come abbiamo visto è non poco stronzo. Mi riferisco a Dio. Un Dio vendicativo, misogino e misantropo che vuole sterminare l’intera razza umana, che continua a mettere alla prova l’uomo con una serie di sfide una più perfida dell’altra manco fossero gli Hunger Games. Dopo la mela del peccato nel giardino dell’Eden che gli ha sbattuto lì davanti alla faccia, salvo poi dirgli “No, non puoi mangiarla!”, proprio come una tipa che te la fa solo annusare, Dio questa volta ha superato persino se stesso. Seguendo l'esempio di George R. R. Martin che a ogni stagione di Game of Thrones deve tirare fuori una serie di morti più impressionanti di quelle precedenti, Dio a questo giro ordina a Noah di uccidere la prole della sua figliastra, ma solo nel caso gli nasca una figlia femmina, giusto per ribadire la sua misoginia se qualcuno aveva ancora dei dubbi in proposito.
A Emma Watson però non nasce una figlia. Ne nascono due! E Noah deve ucciderle entrambe. Già è grave uccidere delle persone, poi è ancora più grave uccidere dei bambini, poi è ancora peggio uccidere delle bambine che essendo figlie di Emma Watson crescendo sono destinate a diventare delle fighe stellari.
A questo punto Noah cosa farà? Andrà davvero fino in fondo nei suoi intenti malati e metterà fine all’intera razza umana per sempre, o disubbidirà a Dio?

Questo lo saprete già se avete letto la Genesi. L’alternativa è quella di guardarvi il film di Darren Aronofsky, anche se io vi sconsiglio di farlo. Se avete amato i suoi precedenti lavori come me, qui dentro dell’un tempo grande regista non troverete molte tracce, se non per qualche vago riferimento ai passaggi più deliranti della sua opera più controversa, The Fountain – L’albero della vita. Questo nonostante Aronofsky figuri come sceneggiatore e produttore, oltre che come regista. Questo nonostante la presenza del solito Clint Mansell a firmare le musiche, tronfie e fastidiose. Questo nonostante il cast vanti attori feticcio del regista come la bella Jennifer Connelly e la partecipazione vocale dell’aficionado Mark Margolis, che durante la visione del film avrà probabilmente avuto sulla faccia per tutto il tempo quest’espressione.


Dimenticate il Darren Aronofsky che conoscevate. Nonostante a livello visivo si tratti di un lavoro potente e dotato di un suo certo fascino, e questa è l’unica buona notizia, Noah è un pasticcio di proporzioni bibliche. Una pellicola in grado di far perdere la Fede, la Fede nel Cinema. Se qualcuno riesce ad arrivare alla fine di questa lunga, estenuante, allucinante e noiosa visione senza bestemmiare nemmeno una volta, quel qualcuno merita di essere fatto Santo Subito.
Fino all’ultimo ho sperato fosse solo un brutto scherzo. Il terrificante finale moralista mi ha fatto capire che no, Aronofsky non stava scherzando ed era dannatamente serio. Persino quando ha tirato fuori questi cosi giganti.


Dimenticate allora Darren Aronofsky. Dimenticate il Cinema. Dimenticate pure che questo possa essere un film sul diluvio universale. Noah è solo un diludendo universale.
(voto 3/10)

mercoledì 17 luglio 2013

VECCHINI DI PAROLA


Uomini di parola
(USA 2012)
Titolo originale: Stand Up Guys
Regia: Fisher Stevens
Sceneggiatura: Noah Haidle
Cast: Al Pacino, Christopher Walken, Alan Arkin, Mark Margolis, Julianna Margulies, Addison Timlin, Lucy Punch, Katheryn Winnick, Vanessa Ferlito, Craig Sheffer, Bill Burr, Courtney Galiano, Weronika Rosati
Genere: old school
Se ti piace guarda anche: Scent of a Woman - Profumo di donna, 7 psicopatici, La 25a ora

Tre amici all’ultima avventura delle loro vite. Al Pacino, Christopher Walken e Alan Arkin, tutti e tre ormai oltre la soglia dei 70 anni, si ritrovano per combinare ancora qualche casino in giro, come ai vecchi tempi.
Tutti e tre delinquenti esperti, ma solo uno di loro è finito in galera: Al Pacino, per ben 28 anni in cui non ha mai aperto bocca pur di coprire gli amici. Il film è interamente ambientato il giorno in cui finalmente esce di prigione. Dopo tutti quegli anni in gattabuia si ritrova davanti un mondo cambiato, in cui ad esempio le auto non si accendono più con le chiavi e sono quindi ancora più facili da rubare. Un mondo cambiato in cui vuole ancora dire la sua, sebbene solo per una manciata di ore. Il mattino seguente, il suo migliore amico Christopher Walken dovrà infatti ucciderlo. È costretto da un boss interpretato da Mark Margolis (il vecchino inquietante di Breaking Bad) a ucciderlo. Perché? Perché Al Pacino a suo volta e a suo tempo aveva ucciso il figlio del boss, per sbaglio… ma non è questo l’importante. L’importante è l’avventura tutta in una notte di Pacino & Walken, cui più in là si aggrega anche il terzo membro del trio, Alan Arkin, dritto dritto dall’ospizio.

Nonostante l’età, i tre ne combineranno di tutti i colori. Vanno in un bordello, dove Al Pacino avrà bisogno di un’ingente quantità di Viagra per far tornare in piedi il birillo, si sniffano medicinali (oh, sono pur sempre dei vecchietti), sfrecciano a manetta con un’auto nuova fiammante, aiutano una tizia stuprata ad avere la sua tarantiniana vendetta, e non a caso a interpretare la tizia c’è Vanessa Ferlito, quella della lap dance di A prova di morte. E poi, poi ne combinano di tutti i colori.
Uomini di parola (titolo originale Stand Up Guys) è un tutto in una notte molto ben sceneggiato e orchestrato, non ai livelli di un Collateral, certo, però riesce a mantenere l’intrattenimento su buoni livelli dalla prima all’ultima scena. I tre protagonisti, soprattutto un indemoniato e super mangione Al Pacino, sono in gran forma, manco fossero tre giovinetti alla prima uscita alcolica insieme. Diciamo che è una specie di teen movie al contrario; laddove lì vengono raccontate le prime esperienze, qui vengono raccontate le ultime, che sono altrettanto importanti e assumono contorni malinconici.
Possiamo anche vederlo come una versione meno tamarra e action, ma più riflessiva e con dialoghi decisamente migliori, degli Expendables. La vecchia scuola che cerca di dire la sua nel mondo odierno, in una pellicola che è molto più avvicente e profonda di quanto ci si potrebbe aspettare dalla classica comedy criminale. A sorpresa, tutto funziona alla perfezione, sia i momenti riflessivi, mai troppo melensi, che quelli comici, dove, nonostante alcune gag piuttosto prevedibili come quella del Viagra, non si scade troppo nel volgare o nel banale.

Ad accompagnare i tre vecchini all-stars, ci pensa un cast di contorno femminile di pregevola fattura: c’è la già citata Vanessa Ferlito, che ha delle labbrazza che Madonna sono la fine del mondo, c’è la splendida Addison Timlin (Afterschool, Californication), che è la cameriera che vorremmo tutti avere nella tavola calda sotto casa, se solo sotto casa avessimo una tavola calda, la sempre simpatica Lucy Punch (Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni, Take Me Home Tonight, Bad Teacher…), la bionda Katheryn Winnick della serie Vikings in versione prostituta mega arrapante e Julianna Margulies della serie tv The Good Wife che qui ritorna a lavorare in un ospedale come ai tempi di E.R.

Da segnalare inoltre la stilosissima colonna sonora, ricca di suoni funk/soul di oggi e soprattutto di ieri, in cui spicca “When Something Is Wrong With My Baby” di Sam & Dave, ballata da Al Pacino insieme a una giovane sgallettata.
Nonostante le illustrissime presenze femminili e le musiche, il motore e il cuore della pellicola restano loro, i tre vecchietti criminali. Tre amici arrivati all’ultima avventura delle loro vite. O chissà? Forse no. Forse non per tutti e tre sarà davvero l’ultima. Il finale non è troppo distante da quello di Spring Breakers, giusto con una differenza d’età tra i protagonisti di una 60ina di anni - ma cosa volete che siano? -, e ci lascia intendere che questi vecchini potrebbero andare avanti ancora. Per sempre.
Stand up forever, guys!
(voto 7/10)

Post pubblicato anche su The Movie Shelter.

"Con tutta la patata che c'è in questo film, non credo di aver mai più bisogno del Viagra!"



venerdì 1 aprile 2011

La prossima ballerina che ce l’ha con Natalie Portman la trasformo in un cigno spennato

Termina qui la Darren Aronofsky week, anche perché 5 film ha fatto e non è che possa inventarmene degli altri.
Se proprio ci tenete potete comunque recuperare le altre tappe del trip mentale:

Il cigno nero
(USA 2010)
Titolo originale: Black Swan
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Andres Heinz, Mark Heyman, John McLaughlin
Cast: Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Barbara Hershey, Winona Ryder, Ksenia Solo, Benjamin Millepied, Christopher Gartin, Sebastian Stan, Janet Montgomery, Kristina Anapau, Mark Margolis
Genere: questa è la follia
Se ti piace guarda anche: Mulholland Drive, Suspiria, Donnie Darko, Eyes Wide Shut, The Company

Non si può dire che abbia messo d’accordo proprio tutti. Darren Aronofsky non è uno di quelli che può piacere a chiunque e infatti anche Il cigno nero, come e ancor di più dei suoi predecessori, è passato attraverso esaltazioni e stroncature entrambe nettissime. Però a questo giro, nonostante una produzione che credeva nel progetto tanto quanto io credo che la Juve possa ancora vincere lo scudetto, ha centrato il suo primo grande successo al botteghino ed è stato pure preso in considerazione dall’Academy. Un miracolo in cui ha avuto una mano da una Natalie Portman estrema (e psicopatica) come non mai.

Negli ultimi giorni è uscita una polemica circa il reale impegno a livello danzereccio della protagonista. La ballerina controfigura Sarah Lane ha infatti affermato di aver fatto ben il 95% delle scene di danze che si vedono poi nel montaggio finale del film, mentre Darren Aronofsky, Mila Kunis e il fidanzato ballerino di Natalie Benjamin Millepied hanno affermato che è stata lei a fare l’80% dei numeri in tutù. Qualunque sia la verità, la forza della sua interpretazione sta in ben altro e comunque questa controversia appare più che mai nello spirito del film: una lotta tra ballerine con Natalie impegnata contro il suo doppio. Abbastanza materiale per girarne un sequel.

Quanto al film, ho decantato le gesta della ballerina Nina e del capolavoro supremo Il cigno nero già a tempo della mio post-recensione. In questa sede, inquadrandolo all’interno del percorso personale del regista, posso aggiungere di come questa pellicola riesca a prendere le tendenze migliori del cinema di Aronofsky mostrate finora e a inserirle tutte dentro una storia sola: un viaggio mentale intricato ma non quanto il teorema del delirio o The Fountain, e una fisicità presa dall’esperienza di The Wrestler e Requiem for a Dream trasportata però attraverso la grazia e il passo di danza di un regista trasformatosi ormai in ballerino. E anche in un cigno (rigorosamente nero).
(voto 10)

Accoglienza: un incredibile successo di pubblico dovuto al passaparola più che a strategie di marketing che l’ha fatto diventare il film sulla danza dal maggiore incasso nella storia del cinema americano (senza contare l’inflazione, ha superato persino La febbre del sabato sera, Dirty Dancing, Flashdance e Save the last dance). La pellicola ha consacrato definitivamente Natalie Portman premiata con l’Oscar 2011 di miglior attrice (il film ha avuto anche altre 4 nomination), ma ha diviso la critica tra pro e contro. A Venezia Tarantino presidente di Giuria ha preferito premiare Somewhere, film valido ma il buon Quentin ha confermato quanto i suoi gusti siano spesso discutibili in fatto di film. Quanto a donne invece ne capisce, visto che ha assegnato il premio Mastroianni di miglior giovane alla strepitosa Mila Kunis.
Box-office USA: $ 106 milioni


E adesso? Quale sarà il prossimo progetto di Darren Aronofsky? Ancora non si sa, quello che vi posso dire è cosa NON farà: il regista ha infatti abbandonato il progetto di Wolverine perché le riprese lo avrebbero tenuto lontano troppo a lungo dal figlioletto (che paparino tenero, chi l’avrebbe mai detto?) e io ringrazio il cielo perché non ho mai sopportato né il personaggio né Hugh Jackman, inoltre l’idea di un Aronofsky impegnato in un blockbusterone sui supereroi da buon radical-chic mi disturbava alquanto. Certo, Christopher Nolan ha fatto cose egrege con Batman. Ma con Batman, non con l’X-Man mani di forbice.

giovedì 31 marzo 2011

Solitario nella notte va, se lo incontri gran paura fa…

Quarta fermata nel folle mondo di Aronofsky, dopo π - Il teorema del delirio, Requiem for a Dream e The Fountain - L'albero della vita.

The Wrestler
(USA 2008)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Robert D. Siegel
Cast: Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry, Wass Stevens, Judah Friedlander, Ernest Miller
Genere: power-ballad
Se ti piace guarda anche: The Fighter, Rocky Balboa, 8 Mile, Million Dollar Baby

Aronofsky goes mainstream? Il regista mette da parte per una volta ossessioni personali ed eccessi visivi e preferisce rimanere concentrato sulla storia. Per fortuna, fare un film “normale” non è comunque affar suo e quindi pur realizzando il suo lavoro più lineare e meno visionario, Aronofsky si inventa un modo suo per rendere comunque l’insieme il più indigesto possibile al pubblico di massa e agli Oscar. Per notare la differenza con una storia simile ma realizzata in maniera più tradizionale basti vedere The Fighter, altro progetto cui Aronofsky avrebbe dovuto partecipare, preferendo alla fine la storia più disperata e meno alla Rocky di questo The Wrestler.

Il regista prende la sua macchina da presa, si trasferisce a vivere alle spalle del protagonista e lo segue ovunque con le sue tanto amate riprese a mano, un vero marchio di fabbrica di Aronofsky. A rendere la pellicola ancora più fisica e viscerale è la scena di un violentissimo incontro di wrestling, ben più sanguinoso e cronenberghiano di quanto si sia mai visto nei patinati match WWE di John Cena, lontani anni luce dalle palestre di serie B qui narrate.
La storia del Randy “The Ram”, interpretato da un Mickey Rourke quasi autobiografico e ancora alive and kicking, è la più semplice finora narrata da Aronofsky, ma rifugge in tutto e per tutto le solite trappole del genere sportivo/riscatto sociale. Questa non è la bella vicenda di una rivincita come nel sopra citato The Fighter, bensì una storia girata con stile (quasi) documentaristico che è uno sprofondare progressivo fino alla caduta (oppure no?) finale, in maniera analoga a quanto capita ai malcapitati di Requiem for a Dream e alla Nina del successivo Il cigno nero. Insomma, al regista non interessa tanto la classica parabola ascesa e declino, ma solo il declino. Che poi è la parte più avvincente, quindi perché perdere tempo a parlare anche dell’ascesa come fanno tanti altri?

Come al solito con il regista newyorkese, l’interpretazione del film non è comunque univoca, ma assolutamente libera. The Ram può essere infatti visto come un idolo assoluto (forse da Mr. Ford?), mentre per quanto mi riguarda è un tizio ancorato al passato che non si è accorto che gli 80s sono finiti da un pezzo, una versione squattrinata dei bolliti Hulk Hogan e Ozzy Osbourne “ammirati” nei rispettivi reality di Mtv “Hogan Knows Best” e “The Osbournes”, uno di quelli che se ne escono con deliri che lasciano il tempo che trovano come: “Gli anni Ottanta sì che erano forti, poi è arrivato quel frocetto di Kurt Cobain e ha rovinato tutto”. Una frase che la dice lunga su un uomo incapace di andare avanti e che vive nel mito di un “glorioso” passato fatto di hair-metal band che mai tornerà (per fortuna). Perché gli anni ’80 sono stati pieni di roba grandiosa, ma non di certo quella rimpianta da The Ram.

E così questa è la power-ballad rock del regista, l’unica finora di una carriera più incentrata su una sperimentazione che in musica trova analogie con Radiohead e Aphex Twin. Da fuoriclasse quale è se l’è cavata in maniera eccellente, ma la dimensione che più gli è congeniale resta tutt’altra. Stavolta è rimasto a guardare dal di fuori, senza entrare dentro lo specchio come ha poi fatto con la ballerina Nina. La mia impressione è che questo film sia stato vissuto in maniera personale più da Mickey Rourke che non da Aronofsky, qui in viaggio in trasferta per una volta non dietro ai suoi di trip mentali, ma dentro quelli di un altro.
(voto 7/8)

Accoglienza: Leone d’Oro a Venezia 2008, è probabilmente il film di Aronofsky che ha ricevuto le recensioni migliori dalla critica, sicuramente comunque quello che ha generato meno odio nei suoi confronti. Nomination agli Oscar per Mickey Rourke e per Marisa Tomei in versione stripper (ingiustamente ignorata invece l'ottima Evan Rachel Wood). Golden Globe come miglior protagonista a Rourke e come miglior canzone originale a “The Wrestler” di Bruce Springsteen.
Box-office USA: $ 26 milioni

martedì 29 marzo 2011

I sogni son desideri

Dopo π - Il teorema del delirio, ecco la seconda tappa nel trip aronofskyano.

Requiem for a Dream
(USA 2000)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Darren Aronofsky
Cast: Jared Leto, Jennifer Connelly, Ellen Burstyn, Marlon Wayans, Christopher McDonald, Keith David, Dylan Baker, Mark Margolis
Genere: tossico
Se ti piace guarda anche: Paradiso + Inferno, Trainspotting, Cristiana F. - Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, Storytelling, Sid & Nancy, Mysterious Skin, Bully

Tratto dal racconto omonimo del 1978 di Hubert Selby Jr., Requiem for a Dream è una visione volutamente sgradevole che ci racconta di personaggi annientati a un grado zero di umanità. Uno di quei film insomma che è un tale pugno allo stomaco che non mi stupisce abbia dei detrattori. La cosa che invece mi stupisce è che sia un film anche parecchio amato da un sacco di gente. Io ho un rapporto piuttosto conflittuale con la pellicola; dopo averlo visto la prima volta ed esserne rimasto molto coinvolto/sconvolto, mi ero ripromesso di non vederlo più perché è un film che nella sua devastante forza fisica è in grado di farmi male come pochi altri. E invece ci sono ricascato perché le pillole di Aronofsky sono una droga, un tunnel da cui non puoi uscire e non ci puoi uscire no non ci puoi uscire e no non con le tue gambe almeno. A perfetto simbolo della devastazione qui presente, il personaggio di Jared Leto (finalmente in un ruolo da protagonista) si riduce il braccio in un filamento di carne nera a forza di farsi le pere e così anch’io non ho potuto non cedere a reinfilarmi in vena questo american dream smaciullato.

Il tipo di Scary Movie fa sempre il fattone, un caso?
A livello registico Darren si diletta in una serie di riprese allucinate e stranianti, di split-screen, primissimi piani, grandangoli hip-hop, camere legate ai corpi degli attori, non tanto per fare il figo (forse un pochino anche per quello), ma più che altro per dare la più adatta rappresentazione visiva della vita di un gruppo di tossici di eroina (i tre ragazzi), quanto di televisione e anfetamine (la madre). Con Trainspotting e I ragazzi dello zoo di Berlino questo Requiem è una delle versioni cinematografiche più estreme e calate (letteralmente) nel mondo della droga che quasi quasi mi faccio e poi me lo rivedo un’altra volta. Anche se fa male. Anche se è un pugno allo stomaco di quelli che ti lasciano un livido indelebile ma allo stesso tempo ti fanno crescere, di quelli che non necessariamente ti rendono una persona migliore ma allo stesso tempo di certo ti segnano.
Non solo droga, comunque, visto che quella messa peggio di tutti qui dentro è la madre, quella fissata di apparire sulla cazzo di televisione: un mostro di personaggio che sembra uscito dritto dalla nostra penisola Mediaset. A interpretare questa sciura cresciuta a pasticche e programmi stile Forum c'è un'allucinante spaventosa agghiacciante e agghiacciata Ellen Burstyn, nominata agli Oscar per questa prova ai confini della resistenza fisica. Darren Aronofsky da buon bastardo deve goderci parecchio a spingere i suoi attori così oltre (anche Natalie Portman deve saperne qualcosa...).

La droga fa male, ma la tv anche peggio
Una fotografia perfetta della disperazione umana sventolata in faccia a chi ancora -stolto- crede negli happy ending. Perché qui non c’è, come suggerisce il titolo del motivo ricorrente di Clint Mansell, una “Lux Aetherna” alla fine del tunnel. Non c’è più speranza perché non c’è più nessun (American) dream cui affidarsi. Solo un eterno e buio requiem. E non puoi uscire no non puoi più uscire e non ci puoi riuscire e sì ci puoi solo morire.
(voto 8,5)

Accoglienza: pubblico e critica divisi  e spiazzati all’uscita, ma rapidamente è diventato un piccolo cult sul mondo della droga, e non solo, oltre ad aver fatto conoscere Aronofsky anche all’infuori del circuito dei festival cinematografici. Diversi premi e nomination per la performance di Ellen Burstyn, mentre “Lux Aetherna” di Clint Mansell è entrato di diritto tra i pezzi più epici nella storia delle colonne sonore e non a caso è stato utilizzato in seguito anche per vari altri film e trailer, oltre ad essere stato pure campionato dal rapper Lil Jon nel pezzo “Throw it up”.
Box-Office USA: $ 3,6 milioni

lunedì 28 marzo 2011

Darren Aronofsky, il regista del delirio

Il cigno nero ha dimostrato al mondo che Darren Aronofsky è una di quelle poche persone al cui passaggio bisognerebbe inchinarsi, per rendere giusto omaggio a cotanto genio. Per narrare le gesta di questo eroe della nostra epoca ho deciso quindi di ripercorrere tutta la sua carriera partendo dall’inizio. Visto che il mondo è bello perché è vario naturalmente questa è solo una panoramica molto soggettiva. Tanto per dire, secondo il mio blogger-antagonista Mr. Ford Aronofsky è un pirletti che ha fatto 3 primi film di merda che nessuno si è filato, poi è stato illuminato sul suo cammino da Mickey Rourke, da sempre noto per le sue brillanti doti recitative, e quindi si è confermato, ma in tono minore, con Black Swan.
Per me (e anche per una parte del mondo) le cose sono andate però un pelino diversamente…

π - Il teorema del delirio
(USA 1998)
Titolo originale: Pi (π)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Darren Aronofsky
Cast: Sean Gullette, Mark Margolis, Ben Shenkman, Pamela Hart, Samia Shoaib
Genere: allucinato
Se ti piace guarda anche: Ghost Dog, Eraserhead, Following, L’uomo senza sonno, L’esercito delle 12 scimmie, Cube - Il cubo, The Number 23

Fin dall’esordio si capisce che Darren Aronofsky non è uno normale. Il modello di riferimento principale per il regista ebreo di origini russe e ucraine è da subito David Lynch, qui in particolare con un Eraserhead richiamato a partire dal bianco e nero. Ma questa non è che una piccola influenza di un film fondamentale della nostra epoca.
Il teorema del delirio è un film sì ovviamente delirante e soprattutto molto ma molto drum’n’bass, come sottolinea la colonna sonora firmata da Clint Mansell, ex leader della british band Pop Will It Itself con cui Aronofsky instaura subito una collaborazione ancora più stretta di quella Lynch/Angelo Badalamenti. Nella spettacolosa soundtrack ci sono tutti i pesi massimi dell’elettronica del periodo, da Aphex Twin ad Autechre, dai Massive Attack a Orbital e Roni Size. Chi non apprezza il genere credo che difficilmente riuscirà a comprendere in pieno un film come questo, in grado di avere un impatto sul cinema di oggi quanto i lavori di Aphex Twin hanno avuto sulla musica moderna.
Le musiche sono infatti un aspetto fondamentale nel cinema di Aronofsky ancor più di molti altri autori e credo che il pubblico rock’n’roll non possa entrare in una pellicola del genere. Il pubblico rock’n’roll che cerca il ritornellone da cantare a squarciagola allo stadio con Aronofsky troverà pane per i suoi denti solo con The Wrestler, mentre dentro a un film del genere non sono presenti facili melodie o lo schema classico strofa/ritornello/strofa, ma solo un flusso di idee e ritmo puro, ritmo drum’n’bass. Il film tra l’altro appare oggi attuale più che mai visto che il genere è tornato di gran moda, perlomeno in Inghilterra (nel terzo mondo musicale ovvero l’Italia ovviamente no).

π è visivamente qualcosa di magnifico, la summa di varie tendenze videoclippare tra Anton Corbijn, Nine Inch Nails e lo spot Levi’s firmato Michel Gondry. Inizia da qui anche il parallelo con Christopher Nolan, il cui esordio Following sempre nel 1998 è girato con un b/n affatto dissimile da questo. I due registi oggi più osannati del mondo hanno infatti un percorso piuttosto comune fatto di viaggi mentali mica da poco, solo che laddove Nolan rimane sempre più razionale e cerca di dare una spiegazione a tutto, Aronofsky preferisce restare più criptico, è decisamente più fisico e ha un rapporto più viscerale con i suoi personaggi, laddove l’inglese preferisce un contatto più freddo e psicologico. Due registi dallo stile vicino eppure dagli approcci radicalmente lontani.

Il film che comunque sento più affine a questo π comunque è Ghost Dog – Il codice del samurai di Jim Jarmusch, uscito un anno dopo; stilisticamente piuttosto lontani, entrambi raccontano di personaggi solitari che vivono dentro il loro mondo e riescono a coniugare al loro interno tendenze diverse e in apparenza inconciliabili: la cultura hip-hop e la disciplina dell’antico Giappone in Ghost Dog, il drum’n’bass e la matematica nel teorema del delirio. Oltre ad altri piccoli dettagli come la fissazione per gli uccelli (i pennuti, non pensate ad altro…) e i discorsi con le bambine al parco (discorsi filosofici, anche in questo caso non pensate ad altro…).

La trama di π è parecchio complessa (per usare un eufemismo), ma più che altro è un puro trip sonoro e mentale dentro una mente geniale e deviata quanto quella del regista, solo che qui il suo alter-ego non è un regista destinato a cambiare la storia del Cinema, bensì un matematico che prova a ricondurre tutta la realtà del mondo ai numeri, interpretato da un ottimo Sean Gullette, poi rimasto nell'ombra un po' come accaduto ai due protagonisti dell'esordio di Nolan, ovvero Jeremy Theobald e Alex Haw. Nel cast c’è naturalmente anche Mark Margolis, attore feticcio del regista newyorkese che comparirà in tutti i suoi film.

Come distinguere un film di Aronofsky da una imitazione?
Se non c'è Mark Margolis, è un falso
Il viaggio aronofskyano nella follia della mente umana concluso dal tuffo di Nina ne Il cigno nero è partito da qui, in un film non alla portata di tutti. Il regista all’esordio parla infatti ancora una lingua tutta sua che nei suoi ultimi due lavori si è poi sforzato di tradurre e rendere un po’ più accessibile anche per chi ancora non si è procurato un dizionario Aronofsky-linguaggio umano.
Altamente consigliato, sia il film che l’acquisto del suddetto dizionario.
(voto 9+)

Accoglienza: il film è stato osannato dalla critica e ha vinto vari premi tra cui quello per la regia al Sundance 1998 e miglior film e sceneggiatura agli Independent Spirit Awards 1999.
Box-office USA: $ 3,2 milioni, ma il film è costato appena $ 60 mila.

Fine prima parte del viaggio aronofskyano.
To be continued…

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