(il titolo del post mi è stato suggerito in sogno da Laura Palmer)
La questione è di quelle toste. Perlomeno parlando di questioni poi non così serie come nucleare, guerre o terremoti. La questione tosta ma poi non così tanto è la seguente: le band musicali devono cercare di evolversi e proporre qualcosa di nuovo e differente oppure, quando non ne sono in grado, dovrebbero semplicemente limitarsi a fare ciò che sanno fare meglio?
L’atroce dilemma se lo pongono tutti i gruppi (e pure i loro fan) con ormai un discreto passato alle spalle; abbiamo visto ad esempio nelle ultime settimane come i Radiohead proseguano nel loro percorso di ricerca, pur all’interno di coordinate elettroniche già esplorate ma in continua evoluzione, e di come invece i R.E.M. rimangano fermi a fare la stessa musica, rischiando di autoclonarsi ma allo stesso tempo fornendo comunque il loro sempre più che gradito contributo alle nostre orecchie. E gli Strokes, giunti dopo una lunga pausa al loro quarto album, cos’hanno deciso di fare?
10 anni passati da Is This It, uno degli ultimi album rock’n’roll davvero decisivi per le sorti della musica mondiale. All’epoca gli Strokes l’avevano definito un vero e proprio greatest hits della band, più che un semplice disco d’esordio. Guardando alla loro carriera successiva possiamo dire che l’affermazione non si discostava affatto dal vero, visto che il meglio della loro intera produzione anche futura era già (quasi) tutto contenuto in quel disco. L’album numero due Room on fire si faceva infatti ascoltare che era un piacere, ma fondamentalmente era una replica (riuscita) dell’esordio. Il disco numero tre invece non mi aveva convinto più che altro per i suoni e per la produzione troppo ricercata, quando la loro arma migliore è sempre stata quella di fare un rock’n’roll grezzo e senza troppi orpelli. Peccato, perché le canzoni c’erano anche, basti ascoltare la splendida “I’ll try anything once” usata in Somewhere di Sofia Coppola, che altro non era se non la versione demo di “You only live once”.
Dopo di ché i newyorkcity cops si sono presi una lunga pausa per dedicarsi a una serie di progetti solisti tutti piuttosto riusciti ma anche tutti piuttosto dimenticabili. Il cantante Julian Casablancas ha pubblicato l’anno scorso un disco confuso eppure a tratti irresistibilmente 80s; il chitarrista Albert Hammond Jr. ha fatto uscire in proprio un paio di dischi solisti con dentro qualche perla non male; l’altro chitarrista Nick Valensi ha suonato con Sia e Regina Spektor; il bassista Nikolai Fraiture fa parte dei validi Nickel Eye; il batterista Fabrizio Moretti infine ha fondato il gradevole side-project Little Joy e s’è mollato con Drew Barrymore. Ma veniamo al qui e ora.
Genere: rock’n’roll
Provenienza: NYC, USA
Se ti piace ascolta anche: Vaccines, Arctic Monkeys, Julian Casablancas, Albert Hammond Jr., Little Joy, Nickel Eye
Pezzi cult: “Taken for a fool”, “Life is simple in the moonlight”
Fatto sta che dopo tutte le cose sopra elencate i fantastici 5 si sono ricordati di avere pure una band insieme e quindi ha dato ora alle stampe questo nuovo “Angles”, in cui ogni membro sembra però starsene nel suo angolo anziché andare al centro del ring a confrontarsi e combattere insieme agli altri. Quello che ne è uscito è un lavoro che a tratti prova la via di un ritorno alle origini con risultati piuttosto buoni e a tratti prova invece nuove direzioni, con risultati già più discutibili.
Il meglio arriva quindi quando gli Strokes fanno gli Strokes. Sebbene nei numeri più rock manchi la stessa freschezza, irreplicabile, del primo disco, qualche numero gli si avvicina: la fantastica e poppy “Taken for a fool”, l’emozionante “Games” o il primo singolo “Under cover of darkness”, grazie a quelle sue aperture malinconiche e a un assolo di chitarra da favola (e io di solito odio gli assoli di chitarra).
I numeri meno Strokes invece mi fanno storcere un po’ il naso e la sensazione è che la colpa non sia tanto del mio naso, sempre ben disposto nei confronti dei gruppi che vogliono prendersi dei rischi, quanto piuttosto di una band fatta di 5 unità separate e non comunicanti tra loro, con ognuna che se ne va a spasso per conto suo. Un’ipotesi confermata dal fatto che Julian ha cantato le sue parti in uno studio a parte e anche gli altri membri hanno spesso lavorato da soli. Quello che infatti ne è uscito non è certo il suono di una band unita (e il video di “Under Cover of Darkness” è molto emblematico in tal senso).
Tra le song meno azzeccate c’è una “Metabolism” molto lagnosa e francamente evitabile, mentre “You’re so right” è il numero ipnotico Strokes meets Radiohead, con voci sovrapposte che sembra di sentire Thom Yorke ubriaco con sotto una chitarrina molto Jonny Greenwood. Peccato che non siano i Radiohead.
Alti e bassi, quindi, ma qualche pezzone ce lo portiamo comunque a casa, come nelle atmosfere Strokes-congeniali della ballad “Life is simple in the Moonlight” che chiude l’album lasciandoci con un buon odore addosso. La puzza di sudore dei primi bei tempi però se n’è andata e adesso lasciano più che altro una scia di profumo francese. Non proprio la cosa più rock’n’roll del mondo, ma nemmeno una cosa per cui lamentarsi troppo.
(voto 6/7)
Avevo molto amato il primo degli Strokes, mi piaceva il suono così particolare fatto solo di chitarre ;)
RispondiEliminaPurtroppo però questo nuovo, di cui ho ascoltato il pezzo da te postato, non aggiunge nulla di nuovo a quello che già erano, anzi, è molto "strokes style", come un marchio di fabbrica. Un po' come gli ultimi dischi dei REM: tutti simili. Ahimè
Sono pienamente d'accordo, un album senza infamia e senza lode, a differenza del titolo del post, che é geniale.
RispondiElimina