venerdì 30 settembre 2011

Nessuno ti può giudicare, tranne me

Apperò, discreta manza la Cortellesi in questo film! Chi l'avrebbe detto?
Nessuno mi può giudicare
(Italia 2011)
Regia: Massimiliano Bruno
Cast: Paola Cortellesi, Raoul Bova, Anna Foglietta, Rocco Papaleo, Lucia Ocone, Giovanni Bruno, Hassani Shapi, Valerio Aprea, Lillo Petrolo, Awa Ly, Pietro De Silva, Caterina Guzzanti, Dario Cassini, Massimiliano Bruno
Genere: commedia escort
Se ti piace guarda anche: Boris, Immaturi, C’è chi dice no

Nessuno mi può giudicare.
Eh no, abbella. Nessuno ti può giudicare un cazzo. Non hai fatto i conti con i Pensieri Cannibali e io ti giudico, eccome. E ti giudico anche una zoccola, mia cara protagonista di questa storia.
Quanto al film, lo giudico una porkata pazzesca.
Anzi no, fermi!

L'accoglienza italiana a Gheddafi? Ah, no: è sempre il film...
L’inizio è davvero agghiacciante e fa temere il peggio. La pellicola si apre infatti come una fotografia impietosa dello stato del nostro paese, anche a livello cinematografico, con Massimiliano Bruno, già attore e sceneggiatore, che sembra pagare subito lo scotto del passaggio dietro la macchina da presa. Ha fatto il classico passo più lungo della gamba.
Il personaggio della Littizz… ehm della Cortellesi (me le confondo sempre) parte come una parodia della tipica donna di centro-destra, con look alla Mariastella Gelmini e battute razziste che facevano ridere in bocca al cumenda Guido Nicheli, ma in bocca a lei non fanno lo stesso effetto. Aggiungiamoci poi lo schiavetto personale della famiglia che è la solita macchieta extracomunitaria finto simpatica ma in realtà stereotipata e odiosa, e una insopportabile voce fuori campo a narrarci la vicenda e abbiamo un quadro impietoso.
Poi però qualcosa succede.
Il marito della protagonista (il solito imprenditore berlusconiano superficiale e pieno di amanti) ci lascia le penne e tutto cambia. Per la protagonista, ma anche per il film.
Per fronteggiare al disagio economico improvvisamente piovutole addosso, pagari i debiti del marito defunto e mantenere lei e il suo amato figlioletto, la donna cosa farà? Un’alternativa sarebbe mettersi a spacciare maria, come suggerisce la serie Weeds, in cui la protagonista Mary-Louise Parker si trova in una situazione analoga, ma visto che siamo in Italia la possibilità più concreta per fare soldi facili alla svelta è un’altra: mettersi a fare la escort, no?

È qui che il film finalmente entra nel vivo, mettendo da parte i (fallimentari) tentativi di indagine sociale del paese e dedicandosi ai toni da commedia. Finalmente si ride e ci sono parecchie scene divertenti, in particolare quelle dell’addestramento come escort o le lezioni di seduzione al bar, con Paola Cortellesi che abbandonati i rigidi panni della prima parte finalmente si scatena e offre una buona performance comica degna dei tempi in cui faceva Mai dire gol.
Ci sono poi alcune chicche non da poco: un video porno intitolato “Fotte prima degli esami”, con cui gli sceneggiatori Massimliano Bruno (sì, sempre li regista) e Fausto Brizzi ironizzano sul loro titolo più famoso, Notte prima degli esami per chi non l’avesse capito. In più c’è anche una (piuttosto) divertente parodia di Nanni Moretti


e in più in più c’è qualche battuta che gioca sul romanesco e a me porcoddue me fa sempre taglià daa risate, tipo: “Amicizia, ma che stamo su Facebook? Ma chitteconosce?”
Insomma, finché il film rimane dentro i paletti della commedia fa anche ridere, sorridere va’, e arriva a guadagnarsi persino l’ambito titolo di “cariiino”. Quando però ambisce pure a farsi ritratto sosciale semo messi male, semo.
I momenti drammatici sono drammatici nel senso de ‘mbarazzanti, ao’, su tutti la scena con il figlio della Cortellesi (Giovanni Bruno, che non ne sono sicuro ma dal cognome direi sia il figlio raccomandato del regista Massimiliano Bruno) che canta sul terrazzo è un qualcosa che risulterebbe stucchevole e vomitevole pure per Antonella Clerici e Gerry Scotti messi insieme.
Altro di male, che c’è? La colonna sonora è tragica, mentre l’apparizione di Fausto Leali risulta - sorpresa sorpresa! - estremamente divertente.
Ciliegina sulla torta amara? La continua vocetta fuori campo è davvero odiosa e la giustificazione della sua presenza verso il finale lascia di stucco. In negativo, intendo.

Tra alcune cose buone e diverse cose meno, nel mezzo rimane un cast che pur non facendo gridare al miracolo risulta piuttosto convincente, oltre alla protagonista c’è un discreto Raoul Bova che nella sua carriera oscilla pure lui tra cose buone (La finestra di fronte) e moccianate assurde, una grande esilarante mitica Caterina Guzzanti (proveniente, come altri del cast, dalla serie Boris) mentre un po’ sacrificato è il personaggio di Lucia Ocone, un’altra insieme alla Littizzetto che mi confondo sempre con la Cortellesi. Rocco Papaleo invece continuo a non sopportarlo molto.
E così mentre rimango indeciso se mi sia più piaciuto o mi abbia più dato fastidio, se prevalgano i punti di forza o quelli di debolezza, ecco che il film si salva in zona Cesarini con un finale sorprendentemente azzeccato. Chi l’avrebbe detto?
E i titoli di cosa sulle note di Walking on sunshine, che pure non c’entra una beata mazza con il resto della pellicola, risolleva in minima parte un film fino ad allora musicalmente agghiacciante.
Nessuno mi può giudicare in effetti se non altro tiene fede al titolo: è davvero difficile da giudicare. La sufficienza piena però non gliela do, tiè.
(voto 6-/10)

giovedì 29 settembre 2011

Quella strana sensazione…

The Drums “Portamento”
Genere: new wave della new wave
Provenienza: Brooklyn, New York, USA
Se ti piacciono ascolta anche: Franz Ferdinand, Smiths, Cure, Mansun

Bello, il nuovo disco dei The Drums. Davvero. Realizzato con classe, anzi con grazia e innegabile Portamento, come annuncia il titolo stesso. Eppure manca qualcosa. Sì, manca qualcosa, ma cosa? Proprio non lo so. È una sensazione di quelle strane, come quando la mattina vi svegliate, uscite di casa e avete come l’impressione di non aver fatto qualcosa. Un tarlo che vi si annida in testa e poi all’improvviso vi rendete conto di non aver mangiato niente a colazione, di non aver fatto la doccia e di non esservi nemmeno vestiti. Ed ecco anche spiegato perché tutti per strada vi guardavano in maniera strana. Mai provata questa sensazione?
Eppure nel nuovo dei The Drums sembra non mancare proprio niente. Nada.
Ci sono i testi che rimangono impressi come slogan come “And I believe that when we die, we die,” dell’iniziale Book of Revelation.
Ci sono le melodie a presa rapida che ti ritrovi a canticchiare quando hai la testa tra le nuvole. Ovvero sempre.
Ci sono i ritmi leggermente danzerecci che ti fanno muovere il piedino a tempo ah yeah ma sei così scordinato da non riuscire ad andare proprio a tempo.
C’è un singolo come Money che più irresistibile di così non si potrebbe pretendere, no proprio non si potrebbe. E tra l'altro il testo in periodo di crisi economica è perfetto.


Eppure manca qualcosa. Sì, ma cosa?
Non per trovare il pelo nell’uovo (che modo di dive disgustoso, aggiungevei tva l’altvo), ma di certo manca una sola piccola cosa. Una cosa fondamentale, che dopo un disco d’esordio folgorante difficilmente arriva con il secondo album che è sempre il più difficile nella carriera di un artista, nonostante siano presenti alcuni tentativi di rinnovare la loro formula sonora, come con il basso pesante di Hard to love o le atmosfere spaziali di Searching for Heaven.
Cosa manca, or dunque, in questo secondo The Drums?
L’effetto sorpresa.
Sorpresi?
Ecco cos’era quella strana sensazione. E, tanto per controllare, sicuri di avere i vestiti addosso?
(voto 7-/10)

Country Boy

Il ragazzo di campagna
(Italia 1984)
Regia: Pipolo, Franco Castellano
Cast: Renato Pozzetto, Donna Osterbuhr, Massimo Boldi, Enzo Cannavale, Clara Colosimo, Enzo Garinei, Sandra Ambrosini, Massimo Serato
Genere: campagna vs. città
Se ti piace guarda anche: Infelici e contenti, Da grande, 7 chili in 7 giorni

Artemio: “Mamma, è una brava ragazza, è diplomata!”
Madre di Artemio: “Allora l'è un putanun!”

Il ragazzo di campagna è uno dei grandi capolavori non riconosciuti del Cinema Italiano. Forse perché a tutti gli effetti non è affatto un capolavoro, ma anzi è un film pieno di difetti e ingenuità. Allo stesso tempo è però proprio la sua genuinità a renderlo irresistibile e divertentissimo, con una serie di battute memorabili sparate a raffica soprattutto nella prima parte, giocata tutta su una fotografia impietosa quanto comica del mondo contadino. Quando lo sguardo ironico del film si sposta però sulla città, sulla gran Milàn, capiamo però che la campagna, pur con tutti i suoi difetti, non era poi così male, con i suoi ritmi diversi, lenti, in cui si può ancora avere il tempo per godersi le piccole cose. Un moralismo facile e prevedibile, che però per fortuna viene fatto dimenticare da un umorismo politically scorrect così anni ’80, rimpianto vedendo alcune anemiche commedie nostrane degli ultimi tempi.

Artemio: “Self made man!”
Madre: “Cosa vuol dire?”
Artemio: “Che mi faccio da solo.”
Madre: “Non devi mica farti da solo, ti fa male, poi ti vengono le occhiaie…”

Il ragazzo di campagna è una commedia all’italiana riuscita non solo perché riesce nell’intento di far ridere, a tratti parecchio, ma anche perché riesce a scherzare su tic e manie dell’Italia dell’epoca, così come faceva Fantozzi o come oggi riescono a fare I soliti idioti e, sebbene solo in piccola parte, film come Benvenuti al Sud o Che bella giornata, mentre non riesce assolutamente ai troppo stereotipati cinepanettoni, incapaci di dare una fotografia reale del paese.
Che poi l’Italia anni Ottanta della Milano dei nuovi yuppie non è poi così lontana da quella attuale. Merito del film che era avanti per l’epoca? Questo no, è solo che l’Italia è una nazione basata sull’immobilismo e da 30 anni a questa parte non è cambiata molto.

Severino Cicerchia lo scoreggione: “Sì rubo, rubo... Ma a chi rubo? A chi c'ha qualcosa! A chi non c'ha niente, non ci rubo niente!”

Nello stato di grazia (o quasi) in cui veleggia la pellicola, persino Massimo Boldi ci fa una bella figura, ritagliandosi lo spassoso ruolo di Severino Cicerchia detto lo scoreggione, il cugggino di città di Artemio che lo aiuta a sistemarsi e gli dà il primo lavoro: rubare le borsette in motorino, un’attività criminale troooooooooppo anni ottanta!
In questa particolare circostanza, Artemio comunque fa la conoscenza della donna dei suoi sogni, o almeno così sembra. La tipa si rivelerà essere la tipica donna in carriera anni ’80, con un fisico alla Kelly LeBrock e ambizioni alla Melanie Griffith in Una donna in carriera, una maniaca del lavoro che si concede un’unica pausa la domenica per seguire la sua squadra del cuore: la Juve di Platini, naturalmente! E quella sì che era una Juve per cui valeva ancora la pena fare il tifo, taaac!

Artemio: “Ho interessanti prospettive per il futuro”

All’inizio Artemio (un perfetto imbambolato Renato Pozzetto) ci viene presentato come una sorta di bamboccione ante litteram: a 40 anni vive ancora con la madre e svolge un’attività in famiglia. E così decide di fare il grande salto nella grande città, dove però si troverà a dover fare i conti con la difficoltà di trovare un lavoro e pagare un affitto che a Milano, ieri come oggi, è qualcosa di allucinante. Anche se siamo nell’economia in espansione degli esplosivi 80s, Artemio si trova così a dover fare i conti con le difficoltà dei ggiovani d’oggi, affrontando la tematica lavorativa in maniera sì comica, ma comunque più efficace di molte pellicole italiane nell’oggi di un un periodo di crisi economica.
Capolavoro non riconosciuto del Cinema Italiano, or dunque? No, direi proprio di no, anche perché la regia firmata da Castellano & Pipolo è davvero poca cosa. D’altra parte Pipolo era pur sempre il padre di un certo Federico Moccia… E non potete nemmeno maledirlo per questo, visto che è venuto a mancare nel 2006.
Nonostante i suoi limiti, rimane una visione da cui avrebbero alcune cosette da imparare gli sceneggiatoroni delle poco divertenti commedie nostrane.
E adesso tutti a pranzo…

Artemio: “Ma è possibile che tutte le volte che muore un gatto tu mi cucini il coniglio?!?”
(voto 7/10)

mercoledì 28 settembre 2011

Every rose has its Thor

Thor
(USA 2011)
Regia: Kenneth Branagh
Cast: Chris Hemsworth, Natalie Portman, Tom Hiddleston, Stellan Skarsgard, Kat Dennings, Anthony Hopkins, Idris Elba, Clark Gregg, Colm Feore, Josh Dallas, Jaimie Alexander, Rene Russo
Genere: supereroico
Se ti piace guarda anche: Transformers, Hulk, Iron Man, L’apprendista stregone

Oddio che palle questi film che vanno a scavare nel passato, tipo 3000 anni fa, inventandosi storie in cui ci sono dei giganti di ghiaccio che hanno invaso la terra, oppure vampiri e lycan come nell’assurda trilogia di Underworld.
No, non è vero.
Andatevi a leggere i libri di storia: vi è pero caso traccia di queste minchiate?
Ok, anche in serie come True Blood o The Vampire Diaries succedono delle cose pazzesche che poco hanno a che vedere con la realtà, però perlomeno non pretendono di andare a riscrivere la storia inserendoci dei mostri immaginari.
Solo Quentin Tarantino può riscrivere la storia. In meglio.

L'attore precedentemente conosciuto come Anthony Hopkins
E vabbè, com’è o come non è, ma secondo questo film nel passato remoto dell’umanità c’è stato questo attacco da parte di ‘sti presunti giganti di ghiaccio, fino a che un mega re galattico non ha ristabilito la pace in modi che non ho capito perché la mia mente era troppo impegnata a chiedersi: “Ma quando la finiamo con ‘ste fanta-menate e facciamo apparire per magia Natalie Portman?” Anche perché vedere Anthony Hopkins in versione re degli Dei con una benda all’occhio per me non è proprio il massimo della vita, anche perché ricordate…
Solo Quentin Tarantino può bendare i suoi attori, o meglio attrici, senza farli apparire ridicoli.

Comunque Thor ascende al potere con tanto di martello che più tardi avrebbe ispirato una celebre canzone di Rita Pavone e in testa indossa un ridicolo elmetto alla Asterix.
"Finché non arriva Ghedini non apro bocca, cribbio!"
Nei panni di Thor il martellatore intergalattico troviamo il muscoloso Chris Hemsworth, il fratello di Liam Hemsworth (l’uomo che invece si martella Hannah Montanal). Più promettente l’interprete di suo fratello, Tom Hiddleston, attore dal volto a metà tra Michael Fassbender e Marco Travaglio (proprio così!) da valutare in futuro possibilmente in un film più appetitoso su un piano recitativo.
Kenneth Branagh seduto sul trono di regia come al solito cerca di dare alla storia un afflato shakespeariano, confermandosi la groupie numero 1 del Bardo, peccato che nelle scene spettacolari e nei momenti d’azione con le sue inquadrature sbilenche si riveli adeguato quanto la manovra fiscale di Tremonti per risolvere i problemi dell’Italia, dell’Europa e forse dell’umanità intera. Quello lascialo fare a Thor, mio caro (si fa per dire, eh) Giulio.

Il rivale di Thor? Marco Travaglio...
I paesaggi e la fotografia del film fanno tanto new-age a metà strada tra 300 e Avatar, cioè una roba che più finta non potrebbe apparire e certo non aiuta a dare credibilità a una storia che come abbiamo già visto è un filino sull’assurdo andante.
Ma la classica ciliegina sulla torta è il tono epico urlato usato da Thor e dagli altri personaggi ogni volta che aprono bocca: “Io sono Thor, figlio di Odino!”
Cosa che dovrebbe provocare come risposta automatica un generatore di insulti random in romanesco tipo: “Ma vattelo a pija in quel posto, a fijo de ‘na mignotta!”


Non avendo niente di meglio da fare, Thor decide di andare in gita in BMX con i suoi super amici su un pianeta popolato da esseri schifosi che al confronto Roberto Ferrari di Radio Deejay e Ribéry sono belli. La cosa scatena un’ovvia guerra interplanetaria. Anthony Hopkins giustamente non prende bene la notizia e decide di esiliare il figlio di Thoria Thor sulla Terra e di togliergli pure i poteri e il suo prezioso martello, tiè.
Con tutti i posti in cui può cadere, Thor va a finire contro un furgoncino guidato da Natalie Portman. Inculato forte, il tipo. Perché non capita anche a me di essere bandito da un pianeta e ritrovarmi subito dopo di fronte a Natalie Portman?
Certe domande sono destinate a rimanere senza risposta.
Meno male che Natalie c'è!
Dopo una lunga prima parte che sembra una versione brutta, ma brutta brutta brutta, di fantasy come Il signore degli anelli e Game of Thrones, finalmente inizia l’avventura sulla Terra, in cui Thor sbraita come al solito e si comporta come un pazzo psicopatico, cosa che però fatta sul nostro pianeta suscita un notevole effetto comico. A colpi di tranquillanti in dosi da elefante viene finalmente sedato da un tipo che gli grida: “Benvenuto sulla Terra, stronzetto! Hai finito di urlare, adesso?”

Il film procede dunque su due piani, entrambi sul ridicolo andante ma con effetti molto differenti: in uno, quello spaziale, è un ridicolo odioso fatto di discorsi strampalati e urla (ma basta urlare, razza di trogloditi, altroché Dei!); nell’altro, quello sulla Terra, è un ridicolo divertente, con scene esilaranti come Thor che mangia più di Obelix e distrugge un bicchiere in segno di gradimento di una bibita. In più ci sono Natalie Portman scienziata stile Jodie Foster in Contact, Stellan Skarsgard in versione professorone di ‘sta cippa e una divertente Kat Dennings (ora anche nella nuova spassosa sitcom 2 Broke Girls) molto indie-nerd; una Scooby Gang talmente assurda da apparire come l’unica cosa sensata della storia (perché ad esempio Thor parla la lingua degli umani?) ed è in grado di salvare la visione dallo sprofondare nel baratro della noia più totale.
E meno male che anche Kat c'è!
L’apice del trash lo si raggiunge però con l’arrivo dei super amici di Thor sulla Terra, che  sembrano dei fanatici di World of Warcraft appena usciti dal Comic-Con. Cosa che mi porta a chiedere: “Ma perché diavolo ho visto questo film?”
Ah già, perché c’era Natalie Portman!

Chiudo gridando una cosa al mondo intero:
“Io sono Cannibal Kid, figlio di Anthony “Hannibal Lecter” Hopkins!”

Generatore automatico di insulti random in romanesco: “Ah Cannibale, li mortacci tua, avé un fijo come te è peggio che avé un fijo daa Lazio!”
(voto 5/10)

martedì 27 settembre 2011

Malick profumo d’intesa

Come puoi contenere tutta la grazia del mondo in un solo film?
Vai a cercarla.
I tuoi occhi viaggiano per tutto il mondo, fino a che
L’hai vista.
Non è facile impacchettarla e trasferirla su pellicola, però ci puoi provare, anche se tutti ti dicono che non è possibile.
Terrence Malick con questo film ha inserito la freccia di sorpasso su Dio, un po’ come gli scienziati del Cern su Einstein.
È il circolo della vita. È l’albero della vita.
Tutto è relativo, anche l’esistenza della teoria della relatività. Un giorno ti puoi svegliare e apprendere che “puuuf”
una volta era super
ora è superata
arriva un neutrino qualunque
e “puuuf”
pure tu sei superato
(tu stai zitta, Mariastellacadente Gelmini, muta)

Tornando a Dio, possibile candidato all’Oscar di miglior attore non protagonista, se si mettesse a fare il regista non credo saprebbe fare di meglio di Terrence Malick
“puuuf”, Dio
pure tu sei superato


Dopo questa visione non so se Dio esiste, non più di quanto lo sapessi-non lo sapessi prima
ma almeno ora so per certo che la grazia esiste
la puoi trovare nel volto prosciugato dalle lacrime di Jessica Chastain
nel suo corpo che si libra in volo
nel grido strozzato di Brad Pitt
nella sua fredda disciplina che ti servirà quando crescerai
(bugiardo)
nascosta dentro i ricordi di Sean Penn
nell’occhio meccanico telecomandato con precisione da Malick
nei dinosauri che a Spielberg in Jurassic Park gli sarebbe piaciuto filmarli così, gli sarebbe

Nessuno è perfetto, nessuno fa sempre la cosa giusta
i genitori creano i figli, ma non sempre possono fare il loro bene
Dio ha creato la Terra (notizia trovata su siti non attendibili al 100% come InternetBibleDataBase e nakedratzingerdotcom), ma non sempre può fare il suo bene.
Il fascino più grande sta tutto nella creazione
dopo di che tutto può andare storto
tutto puà essere LACRIMOOOOOOOOOOOSA
ma se vuoi sopravvivere ricorda che non puoi essere troppo buono.

Sky is the limit?
No, non ci sono limiti.
C’è qualcosa di più veloce della luce, quindi non ci sono limiti.
La visione di The Tree of Life è qualcosa di paragonabile alla prima volta che hai ascoltato i Sigur Ros.
Alla prima volta che hai toccato il cuore di una persona.
Alla prima volta che ti sei reso conto che non vivrai per sempre.
Alla prima volta che ti sei sentito più veloce della luce.
The Tree of Life non si limita a rappresentare.
The Tree of Life supera i limiti, va oltre il cinema.
Prende la vita.
La trasforma.
E crea qualcosa di nuovo.
Di eterno.
Oltre la vita.
Live is life NA NA NA NA NA


È vero, dentro all'albero della vita sono rintracciabili tutti i tratti distintivi del cinema malickiano.
Ma è come se con questa opera il regista americano avesse preso le sue splendide prove precedenti e le avesse messe in un angolo.
Come se non fossero stati che passi, per quanto meravigliosi, di un sentiero che lo conduceva dritto fino a qui.
Terrence ha piantato i semi della follia con i ribelli senza causa de La rabbia giovane, ha vissuto i giorni del cielo accarezzando con la mano l’erba alta insieme a un futuro american gigolò, a una sgualdarina e a una bambina, è stato come d'autunno sugli alberi le foglie in bilico sulla sottile linea rossa, ha danzato cheek to cheek con Pocahontas sognando un New World ed è stato sospinto dal vento fino all’albero della vita.
È ripartito da zero. Dalle ambientazioni anni '50 della provincia americana del suo primo film, ma si è spinto oltre.
Non ha guardato ad altre pellicole, dentro altre stanze del figlio.
Non ha cercato di trasformare la sua storia in un thriller, come avrebbe fatto la maggior parte dei registi.
Si è imbevuto di musica classica e lirica, di arte, di documentari naturalistici, di religione non dei preti ma di spirito, si è imbevuto di vita e ha trasformato tutto in cinema.
Con lo sguardo puro di un bambino che sta girando il suo primo super 8.

The Tree of Life è il ponte tra questo mondo e un altro
tra la vita e il cinema
tra il passato e il presente
tra Einstein e i neutrini
tra la natura e la grazia
Grazie, Dio?
No. Grazie, Terrence.

The Tree of Life
(USA 2011)
Regia: Terrence Malick
Cast: Brad Pitt, Jessica Chastain, Sean Penn, Hunter McCracken, Laramie Eppler, Tye Sheridan, Fiona Shaw, Joanna Going
Genere: esistenziale
Se ti piace guarda anche: La rabbia giovane, La sottile linea rossa, The Fountain, 2001: Odissea nello spazio, Bright Star
(voto 10/10)



lunedì 26 settembre 2011

Hippy ki-yay, motherfu**er

Siete hippy?
Siete a favore della pace, sempre e comunque?
Non fareste mai del male a una mosca?
Sicuri?
Ma sicuri sicuri sicuri???

Guardate il nuovo video di Laura Pausini mentre gracida vestita da Roberto Cavalli come una finta hippie e poi ne riparliamo...


Come?
Avete già ordinato una .45 colt su Internet?


BANG

Damigelle porcelle

Le amiche della sposa
(USA 2011)
Titolo originale: Bridesmaids
Regia: Paul Feig
Cast: Kristen Wiig, Maya Rudolph, Rose Byrne, Melissa McCarthy, Wendi McLendon-Covey, Ellie Kemper, Chris O’Dowd, Jon Hamm, Jill Clayburgh, Matt Lucas, Dianne Wiest, Terry Crews
Genere: spassoso
Se ti piace guarda anche: Una notte da leoni, Magnolia, Molto incinta

L’avevano definito Una notte da leoni al femminile, l’avevano, ma qui più che a una sola notte di troviamo di fronte a un mese da leonesse, o giù di lì, quello che ci vuole per organizzare un matrimonio.
Eh Giacomino si sposa, eh Giacomino si sposa. No, qui a sposarsi è Maya Rudolph, comica del Saturday Night Live attualmente impegnata nella nuova sitcom Up all night in cui è lei a illuminare la scena. Ma in questo film non è lei a brillare di più, nonostante ci regali una scena mica da poco in cui caga in mezzo alla strada vestita da sposa!
Oh yes.
Il “fattaccio” avviene nella scena apocalittica del post-avvelenamento da cibo brasiliano. Immagino che dopo l’uscita di questo film i ristoranti brasiliani abbiano avuto un tracollo, soprattutto negli Stati Uniti, dove la pellicola giustamente è stato il mega successo a sorpresa dell’estate.

Se Maya Rudolph ci regale questo momento magico, le fenomene vere del film sono però le altre due, le damigelle d’onore anzi del disonore, che si contendono il ruolo di BFF (Best Friends Forever) della promessa sposa, a partire dalla prima (di una lunga serie) di scene cult proposte dal film: la sfida nei discorsi commoventi in onore dell’amica. Una vera gara di talento comico da parte di Kristen Wiig (che co-firma anche la sceneggiatura), l’incasinatissima vera protagonista del film, e Rose Byrne (come al solito più che strepitosa!), tutta organizzatissima e perfettina. Tra loro due si scatena una battaglia degna delle migliori (o peggiori) Blog Wars tra Mr. James Ford e me, dove in questo caso io sarei la Rose Byrne di turno. Ok, quest’ultima uscita era un po’ gay, quindi specifico che io sarei la versione maschile di Rose Byrne. Suona ancora gay?
Fanculo!

Spassosissimi anche i ruoli minori, come i figliastri di Rose Byrne (che commentando la partita di tennis della matrigna la sfottono: “Giocano meglio persino nella pubblicità degli assorbenti interni”), o la coinquilina di Kristen Wiig che si rovescia addosso dei piselli per alleviare i dolori causati da un tatuaggio. Mentre l’altro coinquilino è interpretato da Matt Lucas, ovvero il tizio di yeahbutno butyeahbut no della mitica serie Little Britain.
Persino una che ha un ruolo minuscolo, la tizia seduta vicino a Kristen Wiig sull’aereo che le confessa di aver fatto un sogno molto Final Destination la sera prima in cui l’aereo si schiantava, fa morir dal ridere. Sono questi piccoli dettagli che rendono grande una commedia.
Per fortuna l’unica cosa che si schianta non è l’aereo, bensì io, dalla risate.
Il viaggio aereo ne Le amiche della sposa è infatti il viaggio aereo più divertente di sempre. Sì, anche più dell’aereo più pazzo del mondo!

Ma ci sono anche altri piccoli dettagli geniali a impreziosire il tutto: ad esempio Kristen Wiig in casa ha dei ritratti di varie icone della musica country, tra cui Taylor Swift!
Piccolo ruolo, lontano anni luce da Mad Men, per Jon Hamm, che comunque riesce a ritagliarsi una memorabile scena in cui tenta di farsi fare un pompino in auto.
Esilarante poi l’amica cicciottella, interpretata da Melissa McCarthy, ex Sookie di Una mamma per amica e fresca vincitrice dell’Emmy per la sua nuova sitcom Mike & Molly, che qui veste i panni di una tipa rozza come un orangotango giapponese. Dite che non esistono oranghitanghi giapponesi? E che ne sapete, avete visitato voi tutto il Giappone? No? E allora non escludete le cose così a priori per sentito dire. Che poi a dirla tutta, non sono nemmeno così rozzi, gli oranghitanghi giapponesi. Ne ho conosciuto uno, una volta, ed era un perfetto gentleman, o meglio gentlemonkey, quindi ho sbagliato paragone. Diciamo allora che questa tipa è rozza come uno scaricatore di porto, tanto per andare sullo stereotipo più abusato. Ma voi l’avete mai conosciuto uno scaricatore di porto? Io sì, sempre in quel viaggio dopo ho incontrato anche l’orangotango gentlemonkey giapponese, ed era una persona squisita, con cui ho disquisito per ore e ore sul bon ton a tavola: lui sosteneva che il cucchiaino da dessert va tenuto sopra la forchetta con il manico rivolto a sinistra, io a destra. È stato uno dei dibattiti più accesi cui abbia mai partecipato. Alla fine lui ha dovuto cedere, d’altra parte è pur sempre uno scaricatore di porto e non è che possa avere la meglio in un dibattito sul galateo.
Di cosa stavo parlando. Pardon, sono stato maleducato e sono andato fuori argomento. Forse dovrei ripassarmi anch’io il galateo.

E allora torniamo su Le amiche della sposa. Un film con le musiche firmate Michael Andrews, l’autore della soundtrack di Donnie Darko, per me ha già vinto in partenza. E un film con per di più una canzone (Paper Bag per la precisione) di Fiona Apple per me ha già stravinto e di brutto. E al proposito aggiungo una nota curiosa (oddio, magari non per tutti) di gossip: Fiona Apple ha avuto una lunga relazione con il regista Paul Thomas Anderson, quello di Magnolia, mentre adesso lui sta con Maya Rudolph, la sposa del film, da cui ha anche avuto due bambini. Che abbiano deciso di inserire un pezzo di Fiona Apple come premio di consolazione o per fare la bastardata di ricordarle che alla fine è riuscito ad accalappiarlo lei?
Va bene, la smetto qui con ‘sto cazzo di gossip, contenti?


E a proposito di Magnolia… Aperta seconda parentesi, la storia tra la protagonista è il poliziotto mi ha ricordato parecchio quella tenerissima e sofferta tra Melora Walters e John C. Reilly in quel film, piuttosto che qualche solita insipida storiella presente in molte altre commedie sentimentali in circolazione.

E ora vi sparo un’altra piccola curiosità che non interesserà probabilmente a nessuno: il nome della personaggio della protagonista Kristen Wiig nel film è Annie Walker, lo stesso dell’agente della CIA interpretato da Piper Perabo nella serie tv Covert Affairs. Una perla di conoscenza da sfoggiare in tutte le occasioni, non credete? No? Magari in una domanda del Trivial Pursuit vi esce e voi risponderete giusto grazie a me. Ma poi esiste ancora il Trivial Pursuit e, se sì, esistono ancora persone che vi giocano?
La smetto con queste inutili digressioni?
La smetto.

Se nel mio delirio non si era capito, le amiche della sposa è quindi il mio candidato numero 1 come commedia più divertente dell’anno (Breaking Dawn permettendo), mentre questo post è il candidato numero 1 per la maggior media di stronzate sparate per cm quadrato di monitor del PC.
Ma, soprattutto, Kristen Wiig che sull’ala dell’aereo vede una donna del ‘700 con un vestito in stile coloniale, viene arrestata, viene licenziata perché dà della troietta a una cliente ragazzina, si alza prima dal letto per truccarsi e apparire figa la mattina a fianco di Jon Hamm, passa in auto davanti a uno sbirro che si è scopata bevendo prima una bottiglia di birra, poi atteggiandosi da gangsta-rapper e quindi in topless, è la candidata numero 1 a mia eroina personale dell’anno.
Vorrei essere una donna per sposarmi e avere una damigella d’onore come lei. Anche questa frase suonava gay?
Fanculo!
(voto 8/10)

domenica 25 settembre 2011

Super horror picture show

Amusement
(USA 2008)
Regia: John Simpson
Cast: Katheryn Winnick, Laura Breckenridge, Jessica Lucas, Keir O’Donnell, Reid Scott
Genere: triplo horror ripieno
Se ti piace guarda anche: Trick ‘r’ treat, Choose, Patto di sangue

Amusement è un film di quelli che mettono subito le carte in tavola. A partire dai titoli di testa capiamo che ci troviamo di fronte a un film di sottogenere “stalker”, in cui tre giovani tipe carine e con un futuro molto brillante davanti si troveranno a dover avere a che fare con un maniaco psycopatico che le perseguiterà, probabilmente con la scusa di un qualche inventato trauma infantile.
Sounds fun, uh?

D’altra parte che altro è Amusement se non un film che gioca con tutti gli stereotipi del genere e lo fa anche moderatamente bene? Senza rivoluzionarli, senza tirare fuori la carta dell’ironia che sarebbe stata molto ben accetta da queste parti, però realizza un discreto intrattenimento di fine estate, anche perché Amusement significa proprio divertimento, intrattenimento (e così vi risparmio una ricerca del termine su wordreference.com).

La cosa figa (o più o meno figa) di Amusement è che ci troviamo di fronte in pratica a 3 mini-film diversi.
Il primo segue il classico filone del pazzo in autostrada che minaccia una tranquilla coppietta. Roba già vista e rivista e stravista ancora, ma comunque ce la vediamo ancora una volta che non fa mai male e ci ricorda di come in autostrada sia sempre meglio non dare troppa confidenza agli sconosciuti, anche quelli che sembrano apparentemente normali.
Il secondo spezzone è incentrato su una ragazza (la nuova scream queen tettuta Katheryn Winnick, vedi Choose) che deve badare ai due nipotini, con fuori un pazzo che la minaccia e dentro casa un sacco di clown inquietanti e televisioni che si accendono improvvisamente da sole sul canale AV come in The Ring. Anche qua situazione classica, ma tanto prima che si possa anche solo pensare: “Ah, che noia!” ecco che si volta pagina di nuovo.
Nel terzo mini-film ci troviamo quindi a che fare con una ragazza scomparsa. La sua coinquilina preoccupata la va a cercare insieme al suo tipo che sembra Luca Argentero alle prese con un film di Dario Argento e i due finiscono in un hotel alquanto creepy, gestito of course da un Norman Bates psyco sfigato della situazione.
Le tre storielle e le tre ragazze si uniranno poi nel gran finale, con un intreccio narrativo che non sarà certo ai livelli di Magnolia o, chessò, della Bibbia, ma riesce a regalare un discreto Amusement.
(voto 6/10)

sabato 24 settembre 2011

Non importa?

Per una volta voglio essere banale. Lasciatemi essere banale, per favore. Sono passati esattamente 20 anni (20, cazzo!) dall’uscita di Nevermind dei Nirvana e quindi, per quanto prevedibile possa essere e anche se ne hanno parlato e ne parleranno tutti, persino la vostra vicina di casa di 80 anni (80, cazzo!), non posso esimermi dal farlo pure io che questo disco mi ha cambiato la vita, mi ha cambiato. E poi perché fondamentalmente, nelle ultime due decadi, di altri album rock che hanno avuto lo stesso impatto socio-generazio-epocale io proprio non ne ho visti né soprattutto sentiti. Dieci anni fa usciva Is This It degli Strokes e anche quella è stata una bella botta rock’n’roll, però l’effetto - volete mettere? - non è minimamente paragonabile a quello di Kurt Cobain e soci.
Il riff di chitarra di Smells like teen spirit che esplodeva su Mtv, l’album che raggiungeva la classifica di Billboard superando il simbolo degli anni ’80 e del pop Michael Jackson, il volto di Kurt che cominciava a fare capolino sulle t-shirt e sulle pareti di ogni adolescente arrabbiato che si rispettasse… è stata una rivoluzione, è stata una stagione, purtroppo breve, in cui le cose sembravano davvero poter cambiare. L’epoca degli yuppie, del consumo superficiale U.S.A. & getta, dell’ostentazione, del pop commerciale e del trash rock delle band con le bandane in testa era giunta alla fine (e Dio solo sa se era ora!) e faceva capolino un mondo parallelo in cui l’alternative rock dominava insieme a una rockstar drogata e depressa cui del successo non poteva fregare di meno. Una rockstar poco propensa a brillare come una star e molto destinata, ahinoi, a bruciare in fretta come una cometa.
E come suona oggi, questo benedetto maledetto Nevermind che ha stuprato la nostra adolescenza, portandoci via non la tramezza bensì l’innocenza e la spensieratezza? Rimbomba ancora come quel colpo di fucile che ci ha portato via Kurt per sempre. È una scossa che fa venire sempre le lacrime agli occhi per l’emozione e allo stesso tempo fa venire una gran voglia di pogare in camera da soli, urlare YEEEAH YEEEEEEEEAH e spaccare tutto. Quanti dischi rock usciti nei 20 anni successivi possono vantarsi di fare lo stesso effetto?
È stata una stagione che è durata poco, è vero, poi tutto è tornato alla normalità, sono arrivate le boybands, sono arrivate le girlbands, la musica commerciale è ritornata a dominare le classifiche, e Seattle è passata da capitale del grunge a capitale della new economy, le chiavi della città finite dalle mani di Kurt Cobain a quelle di Bill Gates. Il mondo ha insomma ricominciato a girare nel suo solito verso, intorno al successo e ai soldi (il poppante sulla copertina già lo sapeva), ma per quel breve periodo tra camice pesanti a quadroni e disperate urla YEEEAH YEEEEEEEEAH (e fatemi gridare ancora un po’!) abbiamo sognato che potesse girare in un modo diverso. Nel modo giusto. Massì, non poteva andare che così alla fine, già lo sapevamo, e in fondo non importa. Nevermind.
Oppure importa?

venerdì 23 settembre 2011

Winter is coming

Di tutte le reunion di rockband degli anni ’90 più o meno grunge, su un ritorno riuscito dei Bush non avrei puntato più di tanto.
Nati come band "vagamente" derivativa dai Nirvana, Gavin Rossdale e compagni erano certo un gruppo dal suono derivativo, che non inventava nulla, ma nonostante questi dettagli non da poco sono riusciti comunque a regalarci una manciata di canzoni esaltanti, come la splendida ballatona Glycerine, l’adrenalinica Machinehead e soprattutto quella bomba di Swallowed.



Bush “The sea of memories”
Genere: revival grunge
Provenienza: Londra, Inghilterra
Se ti piace ascolta anche: Nirvana, Stone Temple Pilots, Silverchair, Feeder, Gavin Rossdale, Institute


Dopo l’ultimo album nel 2001, i Bush venuti alla ribalta durante il governo di Bush Senior si erano separati nell’era Bush Junior, con Gavin Rossdale che poi si è dato senza troppo successo a una nuova band (Institute) e alla carriera solista (con l’album Wanderlust), ma soprattutto si è dedicato al ruolo di marito di Gwen Stefani con cui ha sfornato qualche erede, così tanto per impiegare il tempo.
E adesso in era Obamiana ritornano i Bush e lo fanno con un album che certo non inventa niente di nuovo, ma d’altronde mai l’hanno fatto, però a differenza di altre band tornate sulla ribalta giusto per fare cassa con una manciata di B-side, qui dentro le canzoni ci sono. Alcune belle (il primo singolo The sound of winter), alcune ispirate (All my life, The Afterlife), qualcun'altra emozionante (la classica bushiana nel midollo Baby come home, un pezzo che una 15ina di anni fa avrebbe conquistato la Billboard chart americana).
Un bel dischetto rock. Può sembrare poco, ma io di nuovi bei dischetti rock negli ultimi tempi non è che ne abbia sentiti in giro poi parecchi.
Quindi viva Bush, o meglio, per scansare equivoci politici: viva i Bush!
Può sembrare che mi riferisca ancora a H.W. e W. Bush junior?
E allora viva la band dei Bush!
Va bene così?
(voto 6,5/10)

Thank God It’s Friday

Friday Night Lights
(serie tv, stagione 5)
Rete americana: DirecTV
Reti italiane: Rai 4, Fox, Joi
Creata da: Peter Berg, Brian Grazer, David Nevins
Cast: Kyle Chandler, Connie Britton, Aimee Teegarden, Michael B. Jordan, Jurnee Smollett, Madison Burge, Matt Lauria, Lamarcus Tinker, Grey Damon, Taylor Kitsch, Derek Phillips, Stacey Oristano, Brad Leland, Zach Gildford, Jesse Plemons, Adrianne Palicki, Emily Rios
Genere: la vita è una partita di football
Se ti piace guarda anche: Friday Night Lights (film)


I film e telefilm sportivi non fanno per voi? E allora guardatevi Friday Night Lights e poi vedremo se la penserete ancora così. Detto in questo modo il mio tono sembra minaccioso, ma in realtà la mia non è una minaccia ma un consiglio vivissimo.
Se c’è una cosa di cui sono appassionato sono quei film o serie che riescono a ricostruire perfettamente un ambiente, un modo di pensare, uno stile di vita. Può essere qualunque ambiente, dal mondo dell’hip-hop anni ’90 di 8 Mile alla mente metal di Hesher, dal ghetto di Londra di Attack the block fino al competitivo mondo del balletto classico de Il cigno nero, può essere insomma un qualcosa anche di parecchio lontano dal mio modo di vivere o di pensare, ma l’importante è che vengano creati i presupposti per un tuffo completo in tale mondo.
Friday Night Lights riesce in pieno in questo obiettivo. E anche di più. L’ambiente è quello di una piccola cittadina texana, Dillon, in cui tutta la vita della comunità ruota praticamente intorno alla fenomenale squadra di football liceale. I campioni della squadra sono gli idoli locali, il venerdì sera è il momento che tutti aspettano, quello della partita, e il coach locale è più discusso dell’allenatore della nazionale italiana.
Protagonisti della serie sono proprio il coach Taylor (Kyle Chandler, premiato come miglior attore protagonista agli Emmy 2011), neoassunto dai Dillon Panthers, insieme alla sua famiglia (moglie MILF Connie Britton e figlia teen Aimee Teegarden, più un’altra bambinetta in arrivo), mentre giocatori e cheerleader si danno il cambio nel corso delle varie stagioni. Il perno della serie è quindi di stampo famigliare, ma thanks God siamo lontani da Settimo Cielo e cazzate varie. Il contesto è quello del profondo Sud degli Stati Uniti, dei rodeo e della musica country (ma nella soundtrack ci stanno pure hip-hop e il post rock degli Explosions in the sky!), della fede bigotta e della politica conservatrice. La faccia triste dell’America che vede il football come una religione, ma anche come un’arma di riscatto sociale per tanti giovani che sognano un futuro lontano dalla cittadina di Dillon.
La serie è riuscita a reinventarsi stagione dopo stagione in maniera spettacolare, come una squadra che cambia giocatori ma riesce ad essere sempre vincente. Mica come… e qui inserite una vostra squadra a piacimento. Colpo particolarmente fortunato è stato quello di rivoluzione team all’inizio della quarta stagione: il coach Taylor viene infatti licenziato dai Panthers e passa ad allenare l’altra squadra cittadina, quella scrausa, quella del ghetto con tutti i problemi societari di budget del caso. Un po’ come passare dalla Juventus al Torino.
Sorry, tifosi granata.

La quinta stagione, che è anche quella conclusiva, riparte proprio da lì, concentrandosi sulle vicende dei nuovi problematici footballers e cheerleaders della East Dillon High, con la moglie del coach Taylor che si trova a far loro da consulente. E saranno cazzi…
Ma se uno di solito rimpiange i vecchi personaggi, penso ad esempio addirittura al vecchio Beverly Hills 90210, qui invece i nuovi convincono subito e fanno addentrarsi dentro le loro vite, su tutti Vince Howard (il promettente Michael B. Jordan), strappato da una vita criminale e trasformato da coach Taylor in un’autentica stella del football, o la sua tipa Jess (la pure lei promettente Jurnee Smollett), che non si accontenta di fare la cheerleader bella statuina ma si mette in testa di diventare un’allenatrice di football, di football maschile, o ancora Becky (sarò ripetitivo, ma pure Madison Burge è promettentissima), abbandonata dai veri genitori e costretta ad andare a vivere con una spogliarellista e il suo marito vice-coach. E poi c'è anche il ritorno di qualche volto delle stagioni passate...
Una serie di vite che si intrecciano fino a un grandioso e molto emozionante episodio conclusivo, premiato con l’Emmy 2011 per la miglior sceneggiatura. Giusto così, cazzo. E, se vi interessa, questa sera il gran finale andrà in onda per la prima volta in Italia su Joi. Altrimenti c’è sempre Internet.

Nonostante il cuore della serie rimanga sempre il football, le partite sono comunque soltanto uno degli eventi avvincenti presenti, visto che gli altri motivi di interesse sono regalati da una serie di personaggi tratteggiati in una maniera e con una cura che si vede in poche serie.
Friday Night Lights è ispirato a un film omonimo del 2004 e, dopo aver terminato la sua vita televisiva con la quinta strepitosa stagione, si appresta a tornare sul grande schermo con una nuova vociferata pellicola cinematografica. I riflettori quindi si accenderanno ancora sul coach Taylor, sulla sua squadra e sulla sua famiglia, perché una volta che ci si affeziona a loro è difficile abbandonarli. E pazienza se non ve ne frega un fuck del football americano, insieme a loro comincerete a correre fino a che non segnerete un touchdown.
Se avete voglia di iniziarvi una serie da capo, questa DEVE essere la vostra prima scelta. Sembrava ancora una minaccia?
(voto 8,5/10)

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