Serie del mese
Dying for Sex
(miniserie)
Sta succedendo di nuovo. Uno dei maggiori traumi televisivi della nostra generazione ce lo stanno facendo vivere un'altra volta, ed è devastante, ma anche stranamente divertente. Dopo il triste finale di Dawson's Creek nei panni di Jen Lindley, Michelle Williams ha di nuovo la parte di una giovane donna che sta per morire anche nella serie Dying for Sex.
Quello della malattia è un tema affrontato già più volte sia sul piccolo che sul grande schermo, solo che qui c'è una particolarità. Oltre a trattarlo con una buona dose di umorismo e senza i soliti toni retorici, qui viene raccontato anche da un punto di vista sessuale, un aspetto che in genere in questi casi scompare. E invece no. Nella bucket list della protagonista di Dying for Sex al primo punto c'è quello di provare un orgasmo con un'altra persona, cosa che non le è mai successa. Ce la farà?
Lo scopriremo tra tante inaspettate risate e anche un mare di lacrime guardando questa serie così comedy e sexy che qualcuno troverà irrispettosa nei confronti di un tema come quello del cancro, però è proprio quello il suo pregio. Quello che ci insegna Dying for Sex è che bisogna cercare quello che ci piace e ci fa stare bene sempre, anche nei momenti peggiori della nostra vita. Tipo a me questa serie fa stare bene.
(voto 8/10)
Le altre serie
The White Lotus
(stagione 3)
La vendetta è un piatto che va servito freddo, e a quanto pare anche il White Lotus. La terza stagione ci mette un po' a carburare, un bel po'. Diciamo che i primi quattro episodi lasciano con l'impressione dell'allora, tutto qui?
Dal quinto in poi però la stagione, grazie a Dio o più probabilmente a Buddha visto che è ambientata in Thailandia e alcune scene proprio in un tempio buddhista, finalmente entra nel vivo e ce ne regale delle belle. Tra scene di incesto e un memorabile monologo della guest star Sam Rockwell, la seconda parte regala parecchie soddisfazioni.
I personaggi top?
Per quanto mi riguarda questa stagione la "vincono" Parker Posey, strepitosa ogni volta che apre bocca.
Certo, alla fine resta l'impressione di una stagione minore rispetto alle due precedenti, e in cui in particolare i personaggi "local" potevano essere sfruttati meglio, come successo nella seconda con le italiane Sabrina Impacciatore, Simona Tabasco e Beatrice Grannò, ma anche questa vacanza thailandese ha il suo fascino. La prossima volta però una cottura meno a fuoco lento sarebbe gradita, grazie.
(voto 6,5/10)
The Studio
(stagione 1, episodi 1-6)
Qualcuno qui da noi l'ha definito il "Boris americano" e la definizione in parte ci sta, a voler semplificare le cose. The Studio è infatti un ritratto ironico dei meccanismi che stanno dietro all'industria dell'intrattenimento. In questo caso non di una fiction trash come Gli occhi del cuore, bensì dei filmoni di Hollywood.
The Studio però ha uno stile tutto suo e un approccio umoristico differente. La comicità qui presente è magari meno dirompente rispetto a Boris, ma è costruita per accumulo e ogni episodio finisce a modo suo per essere esilarante. Oltre che scritto e diretto in maniera magnifica. Le puntate di The Studio sono dei mini film d'autore, in cui spicca il clamoroso secondo episodio girato in piano sequenza e che racconta proprio la realizzazione di una scena che dev'essere realizzata in piano sequenza per il nuovo fittizio film di Sarah Polley. In pratica è tipo una versione comica di Adolescence, o di quello che dev'essere stato il dietro le quinte di Adolescence.
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"Sarah, adoro tutti i tuoi film" "Tipo?" "Adesso non me ne viene in mente nemmeno uno, ma sono sicuro che sono tutti stupendi" |
Dopo tanti film cult, da Su×bad e Molto incinta a Strafumati, Facciamola finita e Sausage Party, la premiata ditta composta da Seth Rogen (qui in veste di protagonista, ideatore, sceneggiatore, regista e produttore) ed Evan Goldberg trova la sua consacrazione e probabilmente tocca il suo punto più alto. Curiosamente per una volta ci avevamo pensato prima noi italiani, ma ora finalmente anche Hollywood ha il suo Boris. Dai, dai, dai!
(voto 8/10)
Black Mirror
(stagione 7)
La settima stagione di Black Mirror parte già con due problemi iniziali:
1) L'effetto sorpresa, che per una serie come questa è fondamentale, ormai è svanito da tempo ed è inevitabile che cominci a ripetersi.
2) La realtà ha ormai tristemente superato la fantasia e il mondo che viviamo sembra sempre di più un continuo episodio di Black Mirror.
Fatte queste premesse, i nuovi episodi si sono mossi su un livello medio-accettabile, con un solo picco per quanto mi riguarda, ma anche senza enormi cadute di stile. Ecco più nel dettaglio i miei voti.
Gente comune (Common People)
Spunto iniziale notevole, tematica importante (il cancro), riflessioni acute e macabramente ironiche sui piani tariffari di prodotti come Netflix e Spotify, eppure non mi ha emozionato come avrebbe potuto fare e come avrei voluto. Colpa di un ritmo troppo lento e di una sceneggiatura troppo ripetitiva. Anni fa sarebbe stato qualcosa di sconvolgente, adesso è solo un altro comune episodio di Black Mirror.
(voto 6/10)
Bestia nera (Bête Noire)
La cavolata della stagione non poteva mancare. Bestia nera è una revenge story che sa di già visto, tipo la brutta copia di qualche vecchio episodio di Buffy l'ammazzavampiri, e sconfina nel fantasy delirante. Stavo già per bollare questa nuova stagione come una delusione, ma per fortuna con gli episodi successivi la situazione è andata migliorando.
(voto 5,5/10)
Hotel Reverie
Il San Junipero di quest'anno. Ci sono le atmosfere retrò, c'è una romantica storia lesbo, e c'è una discreta idea di fondo. Anche se l'impressione di trovarsi di fronte a un Pleasantville meno riuscito è sempre dietro l'angolo.
(voto 6,5/10)
Come un giocattolo (Plaything)
L'inizio con un Peter Capaldi troppo sopra le righe nei panni di un cattivone in stile Nicolas Cage in Longlegs rischia di far cadere tutto nel ridicolo. L'episodio invece sa poi in qualche modo stupire, è il più ritmato e incalzante della stagione e riesce a coinvolgere. Peccato per un finale che sembra campato lì tanto per.
(voto 6+/10)
Eulogy
L'episodio con Paul Giamatti è il mio preferito di questa stagione. Una chicca che mescola romanticismo e rimpianto, tipo Black Mirror che incontra Se mi lasci ti cancello. E pure questa stagione, anche solo per questa puntata, ha senso di esistere.
(voto 7,5/10)
USS Callister: Infinity (USS Callister: Into Infinity)
Non sentivo un enorme bisogno di un sequel di USS Callister, celebrato episodio d'apertura della quarta stagione carino ma che non mi aveva sconvolto particolarmente. Detto questo, nel suo mix tra Star Trek e Fortnite questa seconda parte tutto sommato funziona. Lasciando pur sempre una sensazione di inutilità e di mancanza di quell'originalità presente in passato, che d'altra parte accompagna gran parte della stagione in generale. Inevitabile, considerando che oggi il vero Black Mirror è il telegiornale.
(voto 6-/10)
Good American Family
(stagione 1)
Non è una serie facile da amare, Good American Family. All'inizio sembra di trovarsi di fronte a una specie di Settimo Cielo, con questa apparentemente buona/buonista famiglia americana che adotta figli come se non ci fosse un domani e con la madre interpretata da Ellen Pompeo che, per di più, è anche a capo di un'associazione che aiuta i bambini disabili. Come i Camden, più dei Camden di Settimo Cielo. Vengono in mente pure i Ferragnez dei tempi d'oro e infatti, proprio come loro, dietro un'apparenza di perfezione paradisiaca si cela un lato oscuro.
Ci va un po' per entrare nel (non tanto) magico mondo di Good American Family, ma una volta che ti prende, non ti lascia più andare. In una maniera analoga a quanto successo con un'altra serie tratta da un'inquietante storia vera, The Act. Che poi non c'è niente di più inquietante di una storia vera e questo Good American Family cominciato quasi come un Settimo Cielo qualunque a un certo punto diventa una specie di horror in stile Orphan, non a caso esplicitamente citato proprio all'interno della serie. Se i primi quattro episodi sono un conto, dal quinto in poi la serie prende tutta un'altra piega e diventa finalmente facile da amare.
Cosa apprendiamo da Good American Family, e dal mondo di oggi in generale?
Che le persone che appaiono come alti esempi di virtù morale spesso sono le più malefiche di tutte. Morale della storia: se fate del bene, fatelo in silenzio senza mettervi tanto in mostra e senza rompere i cogli0n1, che tanto alla fin fine si capisce lo stesso le persone di cacca che siete veramente.
(voto 7,5/10)
Étoile
(stagione 1)
Oops... l'hanno fatto di nuovo. Dopo Una mamma per amica, Bunheads e La fantastica signora Maisel, i Palladino sono tornati e ci hanno regalato una nuova chicca di serie. Come si può intuire dal suo titolo, a meno che non sei quello che i francesi chiamano "les incompétents", Étoile è una serie ambientata nel mondo della danza. Io devo dire che di danza non ne capisco niente, a ballare sono un po' l'opposto di Roberto Bolle e l'unico motivo per cui quando mi costringono invitano a un saggio di danza non mi addormento è per la gioia di vedere delle fighette in tutù, però quando diventa il tema di un film o di una serie la mia attenzione è massima. Il cigno nero, per dire, è uno dei miei film preferiti di sempre, e la sottovalutata e sconosciuta Flesh and Bone è stata addirittura eletta da questo blog come serie migliore del 2015.
Con Étoile il mio amore per la danza è risbocciato, anche se devo ammettere che non è stato un colpo di fulmine. C'ho messo un pochino per entrare in sintonia con la serie come due ballerini impegnati in un pas de deux, ma quando sono entrato non ne sono più uscito, fino al favoloso crescendo del bellissimo episodio finale. Merito dei soliti grandiosi dialoghi e monologhi usciti dalla penna di Amy Sherman-Palladino e di suo marito Daniel Palladino, e della loro capacità di creare personaggi che più strambi e stralunati sono e meglio è.
A spiccare in Étoile, le cui vicende si snodano tra New York City e Parigi, ci sono soprattutto due folli personaggi. Uno è il geniale coreografo statunitense Tobias (interpretato dalla rivelazione Gideon Glick), che vive così tanto nel suo mondo da essere ai limiti dell'autismo, e forse pure oltre.
L'altra è la francese Cheyenne, la migliore ballerina del mondo, che è anche una persona dal carattere eccentrico per non dire intrattabile e asociale.
Nei suoi panni è un piacere rivedere Lou de Laâge, attrice folgorante lanciata da quel vecchio marpione di Woody Allen in Un colpo di fortuna - Coup de chance. Il suo è il classico personaggio che o si ama o si odia alla follia e io da buon folle la amo. Ogni volta che entra in scena, la scena se la mangia, e si va ad aggiungere alla ormai sempre più lunga collezione di personaggi cult creati da quei fenomeni dei Palladino. Se non ci fossero, ci vorrebbe un buon autore di serie tv per inventare due come loro.
(voto 7,5/10)
Long Bright River - I cieli di Philadelphia
(miniserie)
Queste sono le (mini)serie crime che mi piacciono. Quelle un po' in stile True Detective - Stagione 1, Omicidio a Easttown e compagnia bella. Quelle in cui sì c'è un caso criminale da risolvere, in questo caso i misteriosi omicidi di alcune prostitute che lavorano sotto "i cieli di Philadelphia", come ci tiene a sottolineare il solito evitabile sottotitolo italiano, ma non c'è solo quello.
Long Bright River è anche e soprattutto un'indagine all'interno della vita della protagonista interpretata da una sempre più brava Amanda Seyfried, che qui veste i panni di una poliziotta mamma single che teme che sua sorella possa essere una delle vittime di un novello Jack lo squartatore. Un "thiller esistenzialista", come direbbero forse i critici televisivi, quelli bravi. Un "thriller con un'anima", come direbbero forse i poeti. Un "thriller da vedere", come mi limito più semplicemente a dire io. Anche se 8 episodi sono persino troppi e una maggiore asciuttezza avrebbe aiutato, giusto a voler fare i soliti pignoli incontentabili.
(voto 6,5/10)
Dope Thief
(stagione 1)
Mi sono affezionato ai protagonisti di Dope Thief, nonostante non è che siano proprio due stinchi di santo. D'altra parte a me non piacciono gli stinchi di santo, e poi che razza di espressione è "stinchi di santo"? Chi l'ha coniata deve avere un'anima diabolica e quindi nemmeno lui è uno stinco di santo. Fatto sta che gli ottimi Brian Tyree Henry e Wagner Moura, a mio modesto giudizio due degli attori migliori oggi in circolazione, hanno la parte di due tizi che fingono di essere degli agenti della DEA per derubare degli spacciatori di droga. Un'idea geniale, a dirla tutta.
A loro modo quindi sono delle specie di Robin Hood del narcotraffico, o una cosa del genere. Non è che rubano alle vecchiette, quindi pur non essendo degli stinchi di santo non sono manco così malvagi e perciò si finisce per fare il tifo per loro nelle loro disavventure che degenerano sempre di più. A un certo punto persino troppo.
(voto 6,5/10)
Cotta del mese
Bianca Panconi (Costanza)
Costanza è la nuova serie tratta da un romanzo di Alessia Gazzola e c'è subito da dire che lo spettro de L'allieva aleggia lungo la visione. Oltre a questo, appare anche come uno strano e improbabile incrocio tra Bones e Game of Thrones. A colpire la mia attenzione, più che il costante senso di déjà vu e la protagonista interpretata da Miriam Dalmazio, è un personaggio secondario di ispirazione storica: Selvaggia di Staufen, figlia naturale di Federico II di Svevia, nei cui panni c'è la magnifica visione Bianca Panconi.
Di lei non so niente, tranne che spero di vederla presto in qualche altra produzione. Magari più interessante di questa fiction guilty pleasure mancato.
(voto al primo episodio della serie 5/10)
Guilty Pleasure del mese
Pulse
La definizione più bella di Pulse che ho letto è "Grey's Anatomy fatto dall'intelligenza artificiale". In effetti è proprio così. Pulse è il generico di Grey's Anatomy, mi permetto di aggiungere per rimanere in campo medico. Quello che è il suo difetto principale, è però anche il suo pregio maggiore. Il Grey's originale, se non ho contato male, è arrivato alla 21esima stagione ed è già stato confermato per una 22esima. Ogni tanto mi manca, solo che avendolo abbandonato da anni non ce la faccio a recuperare tutti gli ottantamilafantastiliardi di episodi che mi sono perso. Ecco allora che grazie a Pulse posso seguire le vicende medical-sentimental-sessuali di un nuovo gruppo di dottori troppo belli per lavorare in una corsia di ospedale e non sulle passerelle a partire da zero.
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"Ma perché invece dei dottori non facciamo i modelli?" "Io veramente come primo lavoro sfilo e nel tempo libero faccio un salto in ospedale" |
Zero come l'originalità di una serie che però, con le sue svolte senza senso logico e i suoi personaggi quasi tutti sull'antipatico andante, sa farsi vedere in maniera morbosa. Come un buon guilty pleasure malato deve fare. Per quanto i livelli di "Doc Doc" del GialappaShow restino lontani.
(voto 5,5/10)
Dying for sex tra le serie dell'anno.
RispondiEliminaÈtoile la sto guardando, per ora prenderei tutti a schiaffi in faccia.
Ho amato Common People, ma per il resto anch'io tiepido su Black Mirror.
Non potevo che non amare la nuova serie targata Palladino, anche se più che per Cheyenne i miei occhi erano per Luke Kirby, finalmente protagonista!
RispondiEliminaDirei che non ho più scuse per cercare Bunheads da qualche parte, unica serie dai dialoghi velocissimi che mi manca.
Dying for sex ripercuote il trauma e lo rende ancora più lacrimoso, per per fortuna anche più sexy.
In questa infornata di serie mi mancano solo tre titoli: Good American Family, abbandonata dopo due episodi per eccessiva "camdemizzazione" di Ellen Pompeo e Long Bright River, questa sì passata nel silenzio e da cercare.
Quanto a Pulse, no grazie, meglio The Pitt, anche perché a Grey's Anatomy ho sempre preferito E.R. :)