giovedì 31 marzo 2011

Vasco Rotti (nel senso dei cogli*ni, li hai proprio rotti)

Vasco Rossi “Vivere o niente”
Genere: Vasco pensionato
Provenienza: Vascolandia ovvero Zocca
Se ti piace ascolta anche: Vasco teenager, Vasco spericolato, Vasco drogato, Vasco alcolizzato, Vasco riempi San Siro, Vasco decrepito

“Io sono ancora qua,” canta Vasco Rossi. Eh già, ce ne siamo resi conto. Ma non sarebbe per caso ora di levarsi dalle palle come dovrebbero fare anche Bossi (senior ma anche junior, perché la rottamazione prescinde dall’età) o il Berlusca? Lo so che due euro (e nel tuo caso si tratta di milioni di euro) fanno sempre gola, caro Vasco, però che io sappia tu di processi a carico almeno non ne hai. Non devi per forza continuare con questa farsa per non rischiare di finire in galera. La galera semmai dovrebbero dartela perché te ne esci con canzoni come “Eh...già”, una roba talmente brutta da far storcere il naso persino a molti accaniti fan, con quel momento di trash puro “più giù più su, più giù più su ma vadaviailcù” e corredato da uno dei video più tristi nella Storia della musica (non che sta roba si possa considerare musica e Storia sì, ma solo nel senso di Vecchiume).


I comunicati stampa che hanno anticipato l’uscita del suo nuovo lavoro lo definiscono “il migliore album di Vasco dai tempi di Stupido Hotel” Perché, quello stupido disco era bello?? Comunque vado in missione kamikaze e mi accingo da buon martire all’ascolto INTEGRALE (avete capito bene) del disco. Uh, un salto in un cerchio di fuoco fa molta meno paura!

“Vivere non è facile” recita la prima canzone, a posteriori forse il pezzo (relativamente) migliore della raccolta. Va da sé, Vasco con il titolo me la serve su un piatto d’argento: se vivere non è facile, ascoltare questo album è davvero una mazzata sulle palle, eeeh eeeeeh (tutti insieme, in coro e con gli accendini accesi). E comunque vivere non è facile, ma in confronto all’ascolto completo di questo album è una passeggiata, credetemi.

Sta attento con 'sta retro
che se mi centri l'auto ti obbligo all'ascolto completo del tuo disco
Il resto della scaletta?
“Manifesto futurista della nuova umanità” è così imbarazzante, a partire dal titolo fino alla spaventosa interpretazione vocale, che non so nemmeno come criticarla talmente si commenta da sola. Più ridicola di “Friday” di Rebecca Black, fate vobis.

“Starò meglio di così” ha languide atmosfere acustiche da viaggio on the road coast to coast per l’America. Peccato Vasco ci canti sopra.

“Prendi la strada”: l’hai detto tu, non io. Però prendila, và.

“Dici che”: io dico che sto dico fa cagare.

“Sei pazza di me”: e tu sei solo un povero vecchio pazzo. Il pezzo si va a infilare nel filone definiamolo “commedia sexy” o “soft porno” del Blasco, stile “Rewind” o “Gioca con me”, e contiene un nuovo memorabile verso: “Io ti farò far l’amore sai come nessuno te l’ha fatto mai e resterò dentro di te fino a quando vorrai piangere”. Sì, però prima di fare certe promesse che potresti non essere in grado di mantenere è meglio se fai il pieno di Viagra, caro Vasco.

Non contento di aver coverizzato, stuprato e ucciso “Creep” dei Radiohead, la probabile prossima hit “Vivere o niente” ne ruba ancora un po’ la chitarrina iniziale, per poi procedere con il solito ritornello vaschiano che farà esaltare San Siro come manco un goal di Ibrahimovic o Eto'o.


59 anni portati molto male? Eh...già
In “L’aquilone”, il Vasco senza-talento (quello con-talento è il solo e unico Vasco Brondi) va di puro atto masturbatorio auto citandosi: “Vado al massimo, vado in Messico, vado a gonfie vele” e si capisce che è arrivato davvero a un punto in cui non ha proprio più niente di niente di niente di niente di niente di niente (scusate: disco rotto, ma purtroppo non quello di Vasco) da dire, se mai quest’uomo ha avuto qualcosa da dire a parte “eeeeeh eeeeeeh nananannanà.”

Robe tipo “Non sei quella che eri” dovrebbe tenersele giusto per sé e cantarle (al massimo) sotto la doccia. Lì almeno sò cazzi solo de la su famiglia.

“Stammi vicino”: ma se puzzi di alcool da lontano un kilometro, no che non ti sto vicino.

“Maledetta ragione” alla fin fine dice infine una cosa sensata: “Ed è giusto che sia finita qui.”

La bonus track (da nessuno richiesta) è il rockettone punkeggiante (si fa per dire) ripescato dal passato “Mary Louise”. Giudizio: ma mi faccia il piacere!

Vivere o niente?
Se questa è la rappresentazione del vivere, meglio niente, niente e ancora una volta niente, grazie.
(voto 3-, leggibile anche come 3mendo)

Solitario nella notte va, se lo incontri gran paura fa…

Quarta fermata nel folle mondo di Aronofsky, dopo π - Il teorema del delirio, Requiem for a Dream e The Fountain - L'albero della vita.

The Wrestler
(USA 2008)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Robert D. Siegel
Cast: Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Mark Margolis, Todd Barry, Wass Stevens, Judah Friedlander, Ernest Miller
Genere: power-ballad
Se ti piace guarda anche: The Fighter, Rocky Balboa, 8 Mile, Million Dollar Baby

Aronofsky goes mainstream? Il regista mette da parte per una volta ossessioni personali ed eccessi visivi e preferisce rimanere concentrato sulla storia. Per fortuna, fare un film “normale” non è comunque affar suo e quindi pur realizzando il suo lavoro più lineare e meno visionario, Aronofsky si inventa un modo suo per rendere comunque l’insieme il più indigesto possibile al pubblico di massa e agli Oscar. Per notare la differenza con una storia simile ma realizzata in maniera più tradizionale basti vedere The Fighter, altro progetto cui Aronofsky avrebbe dovuto partecipare, preferendo alla fine la storia più disperata e meno alla Rocky di questo The Wrestler.

Il regista prende la sua macchina da presa, si trasferisce a vivere alle spalle del protagonista e lo segue ovunque con le sue tanto amate riprese a mano, un vero marchio di fabbrica di Aronofsky. A rendere la pellicola ancora più fisica e viscerale è la scena di un violentissimo incontro di wrestling, ben più sanguinoso e cronenberghiano di quanto si sia mai visto nei patinati match WWE di John Cena, lontani anni luce dalle palestre di serie B qui narrate.
La storia del Randy “The Ram”, interpretato da un Mickey Rourke quasi autobiografico e ancora alive and kicking, è la più semplice finora narrata da Aronofsky, ma rifugge in tutto e per tutto le solite trappole del genere sportivo/riscatto sociale. Questa non è la bella vicenda di una rivincita come nel sopra citato The Fighter, bensì una storia girata con stile (quasi) documentaristico che è uno sprofondare progressivo fino alla caduta (oppure no?) finale, in maniera analoga a quanto capita ai malcapitati di Requiem for a Dream e alla Nina del successivo Il cigno nero. Insomma, al regista non interessa tanto la classica parabola ascesa e declino, ma solo il declino. Che poi è la parte più avvincente, quindi perché perdere tempo a parlare anche dell’ascesa come fanno tanti altri?

Come al solito con il regista newyorkese, l’interpretazione del film non è comunque univoca, ma assolutamente libera. The Ram può essere infatti visto come un idolo assoluto (forse da Mr. Ford?), mentre per quanto mi riguarda è un tizio ancorato al passato che non si è accorto che gli 80s sono finiti da un pezzo, una versione squattrinata dei bolliti Hulk Hogan e Ozzy Osbourne “ammirati” nei rispettivi reality di Mtv “Hogan Knows Best” e “The Osbournes”, uno di quelli che se ne escono con deliri che lasciano il tempo che trovano come: “Gli anni Ottanta sì che erano forti, poi è arrivato quel frocetto di Kurt Cobain e ha rovinato tutto”. Una frase che la dice lunga su un uomo incapace di andare avanti e che vive nel mito di un “glorioso” passato fatto di hair-metal band che mai tornerà (per fortuna). Perché gli anni ’80 sono stati pieni di roba grandiosa, ma non di certo quella rimpianta da The Ram.

E così questa è la power-ballad rock del regista, l’unica finora di una carriera più incentrata su una sperimentazione che in musica trova analogie con Radiohead e Aphex Twin. Da fuoriclasse quale è se l’è cavata in maniera eccellente, ma la dimensione che più gli è congeniale resta tutt’altra. Stavolta è rimasto a guardare dal di fuori, senza entrare dentro lo specchio come ha poi fatto con la ballerina Nina. La mia impressione è che questo film sia stato vissuto in maniera personale più da Mickey Rourke che non da Aronofsky, qui in viaggio in trasferta per una volta non dietro ai suoi di trip mentali, ma dentro quelli di un altro.
(voto 7/8)

Accoglienza: Leone d’Oro a Venezia 2008, è probabilmente il film di Aronofsky che ha ricevuto le recensioni migliori dalla critica, sicuramente comunque quello che ha generato meno odio nei suoi confronti. Nomination agli Oscar per Mickey Rourke e per Marisa Tomei in versione stripper (ingiustamente ignorata invece l'ottima Evan Rachel Wood). Golden Globe come miglior protagonista a Rourke e come miglior canzone originale a “The Wrestler” di Bruce Springsteen.
Box-office USA: $ 26 milioni

mercoledì 30 marzo 2011

L'albero azzurro

C'è stato π - Il teorema del delirio e quindi Requiem for a Dream. E ora è la volta dell'Aronofsky più controverso.

The Fountain - L’albero della vita
(USA 2006)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Darren Aronofsky
Cast: Hugh Jackman, Rachel Weisz, Ellen Burstyn, Mark Margolis, Stephen McHattie, Sean Patrick Thomas, Cliff Curtis, Donna Murphy
Genere: romantico
Se ti piace guarda anche: L’esercito delle 12 scimmie, Mr. Nobody, Il curioso caso di Benjamin Button, Southland Tales, 2001: Odissea nello spazio

Darren Aronofsky non fa film brutti. Fa solo film che il pubblico più o meno comprende. E The Fountain è sicuramente il meno compreso e il più autistico tra i suoi vispi pargoli. La cosa paradossale è che dietro a una struttura che fonde concetti religiosi, filosofici, scientifici e quant’altro e dietro a tre piani temporali (1500, presente e un futuro molto prossimo) si nasconde la realtà più intima e allo stesso tempo semplice finora raccontata dal regista: una tragica storia d’amore e morte. Perché, ebbene sì, anche Aronofsky ha un cuoricino in mezzo al petto che batte e questa volta ha voluto raccontarci una vicenda toccante e intensa, seppure in maniera tutta sua, finendo pure per innamorarsi durante le riprese della protagonista femminile Rachel Weisz (con cui è recentemente finita, chiusa parentesi gossip).

L’eccesso di ambizione non è un difetto. Certo, in questo caso il buon Darren ha mirato persino troppo in alto, andando a riprendere le tematiche filosofeggianti e teologiche dell’esordio ma riproponendole in una chiave mistico-trascendentale eccessiva da vero teorema oltre il delirio. Se però togliamo la parte iniziale e quella finale, che pure hanno il loro sfuggente e affascinante perché, Aronofsky per la prima e finora unica volta c’ha fatto sbirciare dentro al suo petto, non dimenticando tuttavia la sua tematica preferita: lo sprofondare negli abissi della mente umana.

Un tentativo simile per andare in porto doveva avere tutti gli elementi che funzionano in maniera perfetta, in questo caso però oltre a una sceneggiatura che mette troppa carne al fuoco, va sottolineata la scelta non troppo azzeccata di Hugh Jackman come protagonista, quando in origine il film doveva essere intepretato dal fincheriano Brad Pitt. Attori non a caso entrambi piuttosto “scimmieschi” per interpretare la parte di uno scienziato che fa esperimenti sulle scimmie. E poi qualcuno ha il coraggio di dire che ai film di Aronofsky manca l’ironia.

Le ambizioni della pellicola non sono del tutto riuscite, vedi anche una colonna sonora che per quanto curata per la prima volta nel caso di Mansell non è particolarmente memorabile. The Fountain è un racconto di amore & morte a tratti molto intenso ma nel complesso confuso (lo ammetto); eppure per me è comunque sempre meglio un film tanto pieno di idee quanto imperfetto e pasticcione, come anche l’altrettanto controverso Southland Tales di Richard Kelly, piuttosto che un film perfettino quanto privo di una benché minima personalità od originalità come Il discorso del re.
Mi rendo conto che chi si aspettava di vedere un regolare fantasy action con Hugh “Wolverine” Jackman possa essere uscito dal cinema con un bel mal di testa, però mai commettere l’errore di aspettarsi un film piacevole da Aronofsky. Ogni suo lavoro è un tormento, una botta in testa e questa volta anche al cuore. Di tenebra.
(voto 7+)

Accoglienza: piuttosto ignorato dal pubblico e perlopiù stroncato dalla critica all’uscita, per quanto rimanga l’Aronofsky meno amato a qualche tempo di distanza il film è stato parzialmente rivalutato. Magari non da tutti...
Box-Office USA: $ 10 milioni

Föra d’i ball

Per una volta sono d’accordo con te, Umberto. È arrivata l’ora di dire, anzi gridare:
Föra d’i ball.

Membri del Parlamento italiano che scappano al solo sentire l’Inno d’Italia e si oppongono a festeggiare i 150 anni d’Unità d’Italia?
Föra d’i ball

Politici italiani che Perepè qua qua, qua qua perepè?
Föra d’i ball

Presidenti del Consiglio con a carico processi per qualsiasi tipo di reato manca solo l’omicidio ma tra un po’ sta a vedere che potrebbe spuntare fuori pure quello?
Föra d’i ball

Igieniste dent-anali che pretendono pre-ten-do-no la Farnesina?
Föra d’i ball

Minorati mentali bocciati 40 volte già a partire dall’asilo che prendono pren-do-no 10 mila euro al mese perché figli di politici minorati mentali ?
Föra d’i ball

Vecchi politici paralitici che quando parlano non si capisce nemmeno cosa cazzo dicono tranne quando sparano cazzate in dialetto?
Föra d'i ball!

martedì 29 marzo 2011

I sogni son desideri

Dopo π - Il teorema del delirio, ecco la seconda tappa nel trip aronofskyano.

Requiem for a Dream
(USA 2000)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Darren Aronofsky
Cast: Jared Leto, Jennifer Connelly, Ellen Burstyn, Marlon Wayans, Christopher McDonald, Keith David, Dylan Baker, Mark Margolis
Genere: tossico
Se ti piace guarda anche: Paradiso + Inferno, Trainspotting, Cristiana F. - Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, Storytelling, Sid & Nancy, Mysterious Skin, Bully

Tratto dal racconto omonimo del 1978 di Hubert Selby Jr., Requiem for a Dream è una visione volutamente sgradevole che ci racconta di personaggi annientati a un grado zero di umanità. Uno di quei film insomma che è un tale pugno allo stomaco che non mi stupisce abbia dei detrattori. La cosa che invece mi stupisce è che sia un film anche parecchio amato da un sacco di gente. Io ho un rapporto piuttosto conflittuale con la pellicola; dopo averlo visto la prima volta ed esserne rimasto molto coinvolto/sconvolto, mi ero ripromesso di non vederlo più perché è un film che nella sua devastante forza fisica è in grado di farmi male come pochi altri. E invece ci sono ricascato perché le pillole di Aronofsky sono una droga, un tunnel da cui non puoi uscire e non ci puoi uscire no non ci puoi uscire e no non con le tue gambe almeno. A perfetto simbolo della devastazione qui presente, il personaggio di Jared Leto (finalmente in un ruolo da protagonista) si riduce il braccio in un filamento di carne nera a forza di farsi le pere e così anch’io non ho potuto non cedere a reinfilarmi in vena questo american dream smaciullato.

Il tipo di Scary Movie fa sempre il fattone, un caso?
A livello registico Darren si diletta in una serie di riprese allucinate e stranianti, di split-screen, primissimi piani, grandangoli hip-hop, camere legate ai corpi degli attori, non tanto per fare il figo (forse un pochino anche per quello), ma più che altro per dare la più adatta rappresentazione visiva della vita di un gruppo di tossici di eroina (i tre ragazzi), quanto di televisione e anfetamine (la madre). Con Trainspotting e I ragazzi dello zoo di Berlino questo Requiem è una delle versioni cinematografiche più estreme e calate (letteralmente) nel mondo della droga che quasi quasi mi faccio e poi me lo rivedo un’altra volta. Anche se fa male. Anche se è un pugno allo stomaco di quelli che ti lasciano un livido indelebile ma allo stesso tempo ti fanno crescere, di quelli che non necessariamente ti rendono una persona migliore ma allo stesso tempo di certo ti segnano.
Non solo droga, comunque, visto che quella messa peggio di tutti qui dentro è la madre, quella fissata di apparire sulla cazzo di televisione: un mostro di personaggio che sembra uscito dritto dalla nostra penisola Mediaset. A interpretare questa sciura cresciuta a pasticche e programmi stile Forum c'è un'allucinante spaventosa agghiacciante e agghiacciata Ellen Burstyn, nominata agli Oscar per questa prova ai confini della resistenza fisica. Darren Aronofsky da buon bastardo deve goderci parecchio a spingere i suoi attori così oltre (anche Natalie Portman deve saperne qualcosa...).

La droga fa male, ma la tv anche peggio
Una fotografia perfetta della disperazione umana sventolata in faccia a chi ancora -stolto- crede negli happy ending. Perché qui non c’è, come suggerisce il titolo del motivo ricorrente di Clint Mansell, una “Lux Aetherna” alla fine del tunnel. Non c’è più speranza perché non c’è più nessun (American) dream cui affidarsi. Solo un eterno e buio requiem. E non puoi uscire no non puoi più uscire e non ci puoi riuscire e sì ci puoi solo morire.
(voto 8,5)

Accoglienza: pubblico e critica divisi  e spiazzati all’uscita, ma rapidamente è diventato un piccolo cult sul mondo della droga, e non solo, oltre ad aver fatto conoscere Aronofsky anche all’infuori del circuito dei festival cinematografici. Diversi premi e nomination per la performance di Ellen Burstyn, mentre “Lux Aetherna” di Clint Mansell è entrato di diritto tra i pezzi più epici nella storia delle colonne sonore e non a caso è stato utilizzato in seguito anche per vari altri film e trailer, oltre ad essere stato pure campionato dal rapper Lil Jon nel pezzo “Throw it up”.
Box-Office USA: $ 3,6 milioni

Tò, c’è qualcuno ancora più sfigato di quel pirla di 127 ore

Frozen
(USA 2010)
Regia: Adam Green
Cast: Kevin Zegers, Shawn Ashmore, Emma Bell, Ed Ackerman, Rileah Vanderbilt, Chris York
Genere: situazioni estreme
Se ti piace guarda anche: 127 ore, Open Water, Buried, Rovine

Attualmente nelle sale italiane

Trama semiseria
Un tizio va insieme alla fidanzata e al migliore amico a fare un tranquillo weekend in montagna sulle piste. Le cose però non vanno nel migliore dei modi…
La tipa si fa il classico allenatore di sci? Si fa l’amico? Si fa il primo che passa?
No, no e no.
Tutti e tre finiscono bloccati su una seggiovia in piena notte perché quel coglione di un manutentore se n’è andato. Distrazioni che capitano, peccato solo che sia domenica e che fino al venerdì successivo le piste non riaprano e che di notte in montagna faccia parecchio freddo e che sotto la seggiovia ci siano pure appostati i lupi…
e insomma, i tre rimpiangeranno di non essere rimasti incastrati dentro un canyon come quel pirla di James Franco in 127 ore.

Recensione cannibale
Tra qualche ora starvene al calduccio a bere una cioccolata calda
non vi sembrerà poi una così cattiva idea...
Frozen è un film che lascia completamente ghiacciati. La drammatica situazione in cui finiscono i tre protagonisti è infatti di quelle in cui si prega di non finire mai nella vita ma in cui è facile immedesimarsi: e se ci fossi io, lì bloccato di notte su una seggiovia, che cosa diavolo farei?
Me lo sono chiesto anch’io, sebbene non sono assolutamente appassionato di montagna, non amo la neve, non scio, non vado nemmeno sullo slittino. Di certo poi non mi salta in mente di saltare su una seggiovia; a parte il fatto che non sciando non vedo perché dovrei divertirmi a utilizzarla come mezzo di trasporto, si aggiunge anche il fatto che soffro di vertigini, quindi col cazzo che mi vedrete mai sopra.
Nonostante questo piccolo particolare, pure io mi sono immerso in una situazione del genere e mi sono chiesto che cosa farei. Proverei a buttarmi? Cercherei di resistere? Il punto forte del film è proprio questo, il coinvolgimento emotivo e pure fisico nella vicenda.

Davvero una tragica situazione, quella in cui si ritrovano i tre sfigatissimi protagonisti. Questi sono proprio stati iellati forte, mentre il protagonista di 127 ore era finito in una trappola mortale simile, ma un po’ -diciamolo- se l’era andata a cercare. Se Danny Boyle in quel film gioca con tutti gli espedienti cinematografici umanamente disponibili per rendere la vicenda più interessante, in Frozen il regista e sceneggiatore Adam Green (già dietro la mdp per il mezzo cult Hatchet e pure per il sequel Hatchet II) decide invece di rimanere incollato alla seggiovia, per fortuna senza equagliare la noia dell’esercizio fine a se stesso come fatto da un certo Buried.
Frozen è uno spot efficace per il turismo montano quanto
la pubblicità di Berlusconi in onda in questi giorni lo è per il turismo italiano
Il film rientra dunque in pieno in quello che è ormai diventato un sotto genere dell’horror e del thriller, quello delle esperienze umanamente estreme e al limite, quelle in cui il confine tra la vita e la morte è davvero sottile e una decisione sbagliata può costare tutto. Il cast non è fatto di attoroni, ma i 3 giovani martiri usciti da apparizioni in serie come Gossip Girl (Kevin Zegers), X-Men (Shawn Ashmore) e The Walking Dead (Emma Bell, versione meno gnocca di Blake Lively) se la cavano bene. Colonna sonora invece un po’ deboluccia.

Prima di vedere Frozen mi sono chiesto: “Ma perché in Italia distribuiscono un film come questo ora che è primavera e che la stagione sciistica sta volgendo al termine?” Pensavo che fosse il solito errore di distribuzione nostrano e invece direi che la mossa è voluta per non compromettere il turismo montano. Insomma, io non scio, ma chi lo fa dopo aver visto questa pellicola avrà ancora voglia di mettere il suo bel culetto su una maledetta seggiovia?
(voto 6/7)

lunedì 28 marzo 2011

Qual è la vera professione di Rita Dalla Chiesa?

Rita dalla Chiesa di professione fa la conduttrice e giornalista televisiva, ma forse vorrebbe fare qualcos'altro. Qualcosa tipo le varie Ruby, Iris, Patrizia, Noemi... Solo che poverina per questioni di età non rientra più nel suo target e allora si arrangia in un altro modo per dare una mano al suo Silvietto. Tipo mettere in scena una simpatica gag nella sua trasmissione cul-t Forum in cui la signora dell'Aquila Marina fa causa al marito Gualtiero; tutto solo un pretesto per realizzare una televendita su quanto avrebbe (mai condizionale fu più appropriato) fatto il Governo in aiuto dei terremotati.
Tra le perle della signora Marina:

"Dentro gli hotel sono rimasti in tre, quattrocento. E gli fa pure comodo. Mangiano, bevono e non pagano niente, pure io ci vorrei andare."

Ovviamente i tipi in questione non sono altro che figuranti: la signora in realtà si chiama Marina Villa, è abruzzese ma di Popoli e quello non è suo marito:

"Ho chiesto di partecipare alla trasmissione e quando gli autori hanno saputo che ero abruzzese mi hanno chiesto di interpretare quel ruolo. Mi hanno spiegato loro quello che avrei dovuto dire, per 300 euro. Anche Gualtiero, che nella puntata interpretava mio marito, recitava. Lui è un infermiere di Ortona. Hanno scelto un altro abruzzese per via del dialetto."

Nella polemica scatenatasi in queste ore, molti su Internet se la sono presi con la signora, la cui colpa principale è quella di essere mostruosamente spaventosa e odiosa, per il resto ha solo interpretato un ruolo. La colpa vera va invece spedita a gente che si spaccia per giornalista quando invece fa solo una propaganda spudorata degna di un brain storming tra Emilio Fede e Maurizio Belpietro.
Rita from the Church si difende però con il metodo Berlusconi del negare negare negare ogni responsabilità: "Alzo le mani, non posso chiedere a tutti la carta di identità." E alle accuse, indignata, non ci sta:

"No, io non ci sto, sono sempre stata equidistante. Ho fatto puntate interi sugli aiuti, ho persino mandato i peluche ai bambini. Vergogna a me? No, io non l'accetto."

Come a dire che se regali un orsetto poi ti puoi sentire in diritto di fare qualunque cosa...
Ma lo sai dove te li puoi mettere i tuoi peluche?

Se questo si chiama giornalismo, per la prostituzione è ora di trovare un altro termine.

Darren Aronofsky, il regista del delirio

Il cigno nero ha dimostrato al mondo che Darren Aronofsky è una di quelle poche persone al cui passaggio bisognerebbe inchinarsi, per rendere giusto omaggio a cotanto genio. Per narrare le gesta di questo eroe della nostra epoca ho deciso quindi di ripercorrere tutta la sua carriera partendo dall’inizio. Visto che il mondo è bello perché è vario naturalmente questa è solo una panoramica molto soggettiva. Tanto per dire, secondo il mio blogger-antagonista Mr. Ford Aronofsky è un pirletti che ha fatto 3 primi film di merda che nessuno si è filato, poi è stato illuminato sul suo cammino da Mickey Rourke, da sempre noto per le sue brillanti doti recitative, e quindi si è confermato, ma in tono minore, con Black Swan.
Per me (e anche per una parte del mondo) le cose sono andate però un pelino diversamente…

π - Il teorema del delirio
(USA 1998)
Titolo originale: Pi (π)
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Darren Aronofsky
Cast: Sean Gullette, Mark Margolis, Ben Shenkman, Pamela Hart, Samia Shoaib
Genere: allucinato
Se ti piace guarda anche: Ghost Dog, Eraserhead, Following, L’uomo senza sonno, L’esercito delle 12 scimmie, Cube - Il cubo, The Number 23

Fin dall’esordio si capisce che Darren Aronofsky non è uno normale. Il modello di riferimento principale per il regista ebreo di origini russe e ucraine è da subito David Lynch, qui in particolare con un Eraserhead richiamato a partire dal bianco e nero. Ma questa non è che una piccola influenza di un film fondamentale della nostra epoca.
Il teorema del delirio è un film sì ovviamente delirante e soprattutto molto ma molto drum’n’bass, come sottolinea la colonna sonora firmata da Clint Mansell, ex leader della british band Pop Will It Itself con cui Aronofsky instaura subito una collaborazione ancora più stretta di quella Lynch/Angelo Badalamenti. Nella spettacolosa soundtrack ci sono tutti i pesi massimi dell’elettronica del periodo, da Aphex Twin ad Autechre, dai Massive Attack a Orbital e Roni Size. Chi non apprezza il genere credo che difficilmente riuscirà a comprendere in pieno un film come questo, in grado di avere un impatto sul cinema di oggi quanto i lavori di Aphex Twin hanno avuto sulla musica moderna.
Le musiche sono infatti un aspetto fondamentale nel cinema di Aronofsky ancor più di molti altri autori e credo che il pubblico rock’n’roll non possa entrare in una pellicola del genere. Il pubblico rock’n’roll che cerca il ritornellone da cantare a squarciagola allo stadio con Aronofsky troverà pane per i suoi denti solo con The Wrestler, mentre dentro a un film del genere non sono presenti facili melodie o lo schema classico strofa/ritornello/strofa, ma solo un flusso di idee e ritmo puro, ritmo drum’n’bass. Il film tra l’altro appare oggi attuale più che mai visto che il genere è tornato di gran moda, perlomeno in Inghilterra (nel terzo mondo musicale ovvero l’Italia ovviamente no).

π è visivamente qualcosa di magnifico, la summa di varie tendenze videoclippare tra Anton Corbijn, Nine Inch Nails e lo spot Levi’s firmato Michel Gondry. Inizia da qui anche il parallelo con Christopher Nolan, il cui esordio Following sempre nel 1998 è girato con un b/n affatto dissimile da questo. I due registi oggi più osannati del mondo hanno infatti un percorso piuttosto comune fatto di viaggi mentali mica da poco, solo che laddove Nolan rimane sempre più razionale e cerca di dare una spiegazione a tutto, Aronofsky preferisce restare più criptico, è decisamente più fisico e ha un rapporto più viscerale con i suoi personaggi, laddove l’inglese preferisce un contatto più freddo e psicologico. Due registi dallo stile vicino eppure dagli approcci radicalmente lontani.

Il film che comunque sento più affine a questo π comunque è Ghost Dog – Il codice del samurai di Jim Jarmusch, uscito un anno dopo; stilisticamente piuttosto lontani, entrambi raccontano di personaggi solitari che vivono dentro il loro mondo e riescono a coniugare al loro interno tendenze diverse e in apparenza inconciliabili: la cultura hip-hop e la disciplina dell’antico Giappone in Ghost Dog, il drum’n’bass e la matematica nel teorema del delirio. Oltre ad altri piccoli dettagli come la fissazione per gli uccelli (i pennuti, non pensate ad altro…) e i discorsi con le bambine al parco (discorsi filosofici, anche in questo caso non pensate ad altro…).

La trama di π è parecchio complessa (per usare un eufemismo), ma più che altro è un puro trip sonoro e mentale dentro una mente geniale e deviata quanto quella del regista, solo che qui il suo alter-ego non è un regista destinato a cambiare la storia del Cinema, bensì un matematico che prova a ricondurre tutta la realtà del mondo ai numeri, interpretato da un ottimo Sean Gullette, poi rimasto nell'ombra un po' come accaduto ai due protagonisti dell'esordio di Nolan, ovvero Jeremy Theobald e Alex Haw. Nel cast c’è naturalmente anche Mark Margolis, attore feticcio del regista newyorkese che comparirà in tutti i suoi film.

Come distinguere un film di Aronofsky da una imitazione?
Se non c'è Mark Margolis, è un falso
Il viaggio aronofskyano nella follia della mente umana concluso dal tuffo di Nina ne Il cigno nero è partito da qui, in un film non alla portata di tutti. Il regista all’esordio parla infatti ancora una lingua tutta sua che nei suoi ultimi due lavori si è poi sforzato di tradurre e rendere un po’ più accessibile anche per chi ancora non si è procurato un dizionario Aronofsky-linguaggio umano.
Altamente consigliato, sia il film che l’acquisto del suddetto dizionario.
(voto 9+)

Accoglienza: il film è stato osannato dalla critica e ha vinto vari premi tra cui quello per la regia al Sundance 1998 e miglior film e sceneggiatura agli Independent Spirit Awards 1999.
Box-office USA: $ 3,2 milioni, ma il film è costato appena $ 60 mila.

Fine prima parte del viaggio aronofskyano.
To be continued…

domenica 27 marzo 2011

Jukebox DeLorean, Brenda Lee

Seconda puntata dei viaggi nel tempo musicali della mia DeLorean personale. Questa volta torniamo indietro fino agli anni 60 con un super classico della musica americana portato al successo da Skeeter Davis, ma che io preferisco in questa splendida versione cantata da Brenda Lee, anche nota con il soprannome di Little Miss Dynamite.

Brenda Lee “The End of the World”
Anno: 1962
Genere: melodramma
Provenienza: Atlanta, USA
Pezzo scritto da: Arthur Kent e Sylvia Dee
Nel mio jukebox perché: ha un ineguagliabile romanticismo apocalittico

Testo liberamente tradotto
Perché mai il sole continua a splendere?
Perché mai il mare continua a infrangersi sulla costa?
Non lo sanno che è la fine del mondo
perché tu non mi ami più

Perché il mio cuore continua a battere?
Perché questi miei occhi stanno piangendo?
Non lo sanno che è la fine del mondo
è finito quando mi hai detto addio

Il giorno in cui scoprii che la magia non esiste

Mr. Magorium e la bottega delle meraviglie
(USA 2007)
Titolo originale: Mr. Magorium’s Wonder Emporium
Regia: Zach Helm
Cast: Dustin Hoffman, Natalie Portman, Zach Mills, Jason Bateman
Genere: giocattolesco
Se ti piace guarda anche: Toys, Toy Story, Mamma ho perso l’aereo – Mi sono smarrito a New York, La fabbrica di cioccolato, Miracolo sulla 34a strada

Trama semiseria
Mr. Magorioum è il proprietario di un negozio di giocattoli e, non si sa bene perché, è dotato di poteri magici. Questi poteri comunque non è che li usi per guarire le persone dal cancro o cose del genere, semplicemente anima dei giochi. Visto che ha 200 e passa anni, Mr. Magorium decide per una volta una cosa furba e realizza che è arrivato il momento per lui di lasciare questo mondo: era ora, dico io, finalmente un po’ di ricambio generazionale! E così Mr. Magorium affida il suo negozio a Natalie Portman, solo che lei è troppo impegnata a ballare e soprattutto a dare i numeri ne Il cigno nero e decide quindi di fare una magia: sparire da questo orrido film.

Recensione cannibale
Ho avuto la prova che Natalie Portman è una Dea, ma non è Dio. Sì, può fare magie, ma miracoli no. Dev’essere un po’ come per un ebreo scoprire che l’Antico Testamento in realtà è un’opera di fantasia di J.R.R. Tolkien o per un cattolico realizzare che dietro i Vangeli si cela l’inquietante firma di un Federico Moccia dei primi anni d.C.. Allo stesso modo io ho scoperto che una roba terribile come Mr. Magorium non può essere raddrizzata nemmeno dalla presenza della magnifica Natalie. E allora oggi il mondo è un posto un po’ più triste perché ho scoperto che Natalie non può ogni cosa come pensavo. Sigh.

Che poi questo film si sforza in tutti i modi di suggerirci di quanto le cose siano piene di magia, basta solo guardarle bene. Il problema è che invece è un film del tutto privo di vera magia. Dustin Hoffman nei panni di Mr. Magorium è qualcosa di insopportabile; già non è mai stato un attore di mio grande gradimento, ma negli ultimi tempi si sta rendendo davvero Mr. Ridiculum, qui con tanto di agghiacciante trucco simil-Grinch. Il bimbo protagonista della storia è poi più insopportabile della media del genere “bambini cinematografici insopportabili” e pure Jason Bateman sembra radicalmente fuori parte. Gli unici momenti decenti della pellicola, accompagnata da un’enfatica ma ben poco incisiva musica firmata Alexandre Desplat (Fantastic Mr. Fox, Il discorso del re), si assistono allora quando il Magorium si leva finalmente dalle palle lasciando un po’ di spazio a Natalie, l’unica luce dentro questo film buio (per quanto colorato), in grado di offrire le sole scene degne di nota quando con la mano fa finta di suonare il piano. E poi in un paio di momenti in cui immancabilmente piange.


Comunque no, nemmeno la presenza di Natalie Portman è abbastanza per consigliarvi questo pessimo filmetto. E se lo dico io che l’ho messa persino come header del blog, fate voi due conti su quale possa essere il livello del ben poco favoloso mondo messo in piedi da questo Zach Helm, regista nonché autore della sceneggiatura.

Questa qui sopra è stata quindi la triste e breve storia di come dopo aver constatato che neanche Natalie può regalare la magia a qualunque pellicola, ho realizzato che la magia non esiste. O forse raddrizzare questo Mr. Magorium era troppo persino per lei. La prossima volta il regista Zach Helm allora mi sa che farebbe meglio a rivolgersi direttamente a Lourdes.
Comunque, Natalie, oltre ad essere l’attrice migliore del mondo sei una persona intelligente, ti sei persino laureata ad Harvard, quindi perché, ma peeerché hai scelto di fare un film del genere???
E pensare che il claim promozionale della pellicola è: "Se pensate che la magia non esista... vi ricrederete." A me è andata al contrario.
(voto 4+)

sabato 26 marzo 2011

Videoteque (Thom Yorke, Alex Turner, Guano Apes, Silvio Berlusconi...)

Non ne avete avuto abbastanza con gli appena 8 pezzi del nuovo album dei Radiohead The King of Limbs”? Ecco allora che Thom Yorke ci delizia con un paio di brani (pazzeschi) realizzati in collaborazione con i re del dubstep Burial e Four Tet. Pop per l’anno 2011 (in Inghilterra) o per l'anno 3011 (col fuso italiano). Questa è la prima traccia “Ego”.


E il viaggio mentale alla Inception della seconda “Mirror”.


Io sono sempre più convinto che la dimensione ideale di Alex Turner sia quella del pop malinconico e retrò, più che quella da rock'n'roll star. In attesa che il prossimo imminente disco degli Arctic Monkeys possa farmi cambiare idea, la conferma alla mia tesi dopo lo spettacolare disco dei Last Shadow Puppets arriva con la colonna sonora del british movie "Submarine" firmata dal monkey solista. Da applausi a scena aperta.


Due video in uno per la idola dell'electro pop francese Yelle.
Finisce uno... e poi inizia l'altro. D'altra parte c'è crisi dappertutto, come cantava Bugo, e bisogna pur risparmiare.


Video letteralmente esplosivo questo. La canzone è un gradevole pezzo chill-out stile Air degli Orelha Negra, la clip è diretta dallo street artist portoghese Alexandre Farto aka VHILS, un amichetto di Banksy che si diverte a far saltare per aria le sue opere d’arte e la sua nuova opera d’arte diventa l’esplosione stessa. Un genio o un pazzo?


A sorpresa i crucconi Guano Apes sono ancora vivi e vegeti, sono pure tornati sulla scena e la loro musica è ancora decisamente cazzuta! Chi l'avrebbe detto?


Di nuovo in pista anche i Tv on the Radio con una meraviglia delle meraviglie come questa "Will Do" ad anticipare il nuovo album "Nine Types of Light".


E visto che come pessima abitudine mi piace chiudere in bruttezza, ecco l’agghiacciante spot “Magica Italia” pro (anche se a me sempre più contro) turismo italiano. Testimonial d’eccezione Silvio Berlusconi, già pronto a questo punto per un futuro nelle pubblicità di Alfonso Luigi Marra.

Mo' adesso ci tocca provare pena pure per Mauro Masi

Mauro Masi è stato cacciato da mamma Rai.
La colpa dell'ormai ex direttore generale?
Voi direte: "Con tutto quello che ha combinato, tra boicottaggi a programmi di successo come Annozero e Vieni via con me, era ora lo mandassero via."
La causa però non è certo questa. Pare che sia proprio Silvio Berlusconi a non essere soddisfatto del suo operato.
Ma povero Masi, cosa doveva fare più di così? Cosa?
Il fatto è che Santoro, Fazio, Saviano, Floris, la Dandini e la Gabanelli sono ancora tutti vivi e in ottima salute, una cosa che non rientrava nei piani del Premier. Per sostituire Masi e portare finalmente a termine la sua missione, il presidente del Consiglio sta quindi ora pensando a una di queste drastiche soluzioni:

Ruby Rubacuori in versione Nikita: una tipa che può agilmente passare da escort a spietata assassina;

Un gruppo di mercenari pagati come fa Gheddafi in Libia, solo che nella squadra del Premier ci saranno anche (per la gioia di Mr. Ford) gli Expendables Sylvester Stallone, Jason Statham, Mickey Rourke, Dolph Lundgren e Jet Li. Ancora in dubbio invece la partecipazione di Bruce Willis e Arnold Schwarzenegger;

Un dream-team di mostri televisivi formato da Sabrina & Michele Misseri, Erika & Omar, Olindo & Rosa, Annamaria Franzoni, Amanda Knox (Berlusconi un po' di figa la vuole sempre) e Massimo Giletti.

venerdì 25 marzo 2011

Ieri era giovedì, domani è sabato e oggi -indovinate?- è fraidei fraideeei

Chi è la persona più odiata del mondo in questo momento?
Silvio Berlusconi?
No, lui è solo al terzo posto.
Gheddafi.
No, lui occupa la seconda piazza.
E allora chi c’è in prima posizione?
In testa alla hit-parade del male questa settimana c’è Rebecca Black, una ragazzina di 13 anni che fino a pochi giorni fa non era nessuno e con “Friday”, già definita la canzone più brutta nell’intera Storia del Pop, è diventata in brevissimo tempo milionaria. Eh già Monday era una signorina nessuna e tempo che è arrivato Friday si è fatta una vagonata di soldi: uno di quei casi misteriosi su cui gli esperti di marketing dovranno studiare a lungo, perché il caso Rebecca Black vale più di qualunque lezione ad Harvard.

Mentre in Giappone dopo il terremoto e lo tsunami c’è l’allarme nucleare e mentre mezzo mondo sta combattendo una guerra contro Gheddafi, 'sta stronzetta di 13 anni come problemoni ha il dover mangiare i cereali a colazione e soprattutto un dubbio esistenziale che ai tempi affliggeva pure Amleto:
Which seat can I taaake?
La cosa che più stupisce è come i suoi amici, per quanto pure loro abbiano addosso una bella dose di sfiga, non le diano una mano di botte: “Which seat? Ma sta zit e non provare a mettere ancora su sta canzone di merda che ti scarichiamo in mezzo alla strada!”
Intanto ribeccatevi il suo video (che viaggia già intorno a 50 milioni di visualizzazioni su YouTube), se per caso avete avuto la fortuna di esservelo persi venerdì scorso.


Oggi è di nuovo venerdì, perché ieri era giovedì e domani stranamente sarà sabato e tra due giorni forse sarà domenica e io ringrazio Rebecca Black Sabbath perché senza di lei non saprei mai che giorno è, quindi svolge un ruolo fondamentale di calendario per regolare la mia settimana: grazie!
Venerdì, dicevamo, bisogna andare get down e avere tanto fun fun fun fun, fuck fuck fuck fuck e io sto seriamente pensando di regalare uno spazio settimanale fisso a questa canzone, perché ormai che venerdì è, senza Rebecca Black?
Sto scherzando.
Ma non troppo, anzi potrebbe davvero diventare la rubrica del venerdì, almeno per le perle di parodie che la rete ci offre. Queste sono le due migliori della settimana selezionate apposta per voi. Adesso vado al bus
STOP


La ballata triste dell'uomo che ha smesso di far ridere

Funny People
(USA 2009)
Regia: Judd Apatow
Cast: Adam Sandler, Seth Rogen, Leslie Mann, Eric Bana, Jonah Hill, Jason Schwartzman, Aubrey Plaza, Aziz Anzari, RZA, Eminem, Sarah Silverman, Andy Dick
Genere: dolceamaro
Se ti piace guarda anche: Man on the moon, In viaggio con una rockstar, Molto incinta, Ubriaco d’amore
Film consigliato da Queen B: thanx!

Trama semiseria
Un celebre comico americano interpretato da un Adam Sandler quasi autobiografico apprende la brutta notizia che ha una forma di leucemia e rischia quindi di morire. Per l’occasione cerca allora di rivedere la sua vita fatta di eccessi insieme a un nuovo comico emergente (Seth Rogen), che diventa il suo assistente personale nonché il suo migliore (e unico) amico. E se da un film di Judd Apatow con Adam Sandler vi aspettate che si rida come matti, vi siete sbagliati perché i due si sono rotti di fare i buffoni a comando per il vostro personale piacere e hanno fatto un film drammatico e serio.
O quasi.

Recensione cannibale
Dopo il successo travolgente di Molto incinta, che l’ha consacrato re della commedia made in USA, Judd Apatow è stato preso da manie di grandezza? È quello che verrebbe da pensare a trovarsi di fronte a un filmone da 2ore e 20minuti che affronta una tematica drammatica come quella di un uomo in fin di vita e per cui si è avvalso di collaboratori di serie A come l’autore dello score di Donnie Darko Michael Andrews per le musiche e l’abituale collaboratore di Steven Spielberg Janusz Kaminski per la curatissima fotografia. Il grande pubblico come spesso succede non sa premiare le grandi ambizioni e infatti il film si è rivelato un mezzo flop, soprattutto se paragonato ai trionfi dei suoi precedenti 40 anni vergine e appunto Molto incinta. Eppure questa pellicola è di certo la sua opera più personale, un ulteriore passo in avanti nella sua sempre più interessante filmografia e se non parlo di capolavoro è solo perché dopo una prima parte davvero ottima, la storia cede lentamente il passo nella parte finale a vicende da classica commedia famigliare. La sensazione è infatti quella che Funny People poteva essere qualcosa di enorme, il film definitivo di Apatow. Così non è, non totalmente almeno, però se non altro ci lascia con la speranza che il regista sappia fare in futuro ancora meglio.

Qui intanto c’è una pellicola più che buona e dal gusto dolceamaro (non ho detto Negramaro!), quasi un dramma rivestito da commedia divertente. Un film in cui si sorride ma è non di quelli da far pisciare sotto dalle risate, sebbene ho avuto l’impressione che alcune parti (come quelle dei monologhi dei comici) avrebbero reso molto ma molto di più in lingua originale.
D’altra parte anche se è un film del regista king of comedy insieme ad Adam Sandler e alla crème della crème della scena comica americana, è pur sempre la storia di un uomo vicino alla morte. Una versione-Apatow del film drammatico-esistenziale, insomma, tanto quanto Molto incinta era una versione-Apatow della commedia sentimentale. La cosa che più adoro di questo uomo-sceneggiatore-produttore-regista-Apatow è proprio quella di saper spiazzare, prendere un genere, remixarlo e farlo proprio. Il peccato di questo film è quindi di svoltare un po’ troppo nell’ultima parte proprio in binari più consueti e aspettati della tipica commedia famigliare americana. Anche se per fortuna il regista non si smentisce e mantiene pur sempre un tocco amarognolo, anche in un finale happy ma non troppo.

In Funny People Apatow, Sandler e tutto il resto del gruppo di comici si guarda allo specchio e ci concede di entrare nel loro mondo, mostrandoci cosa si nasconde dietro a serate di cabaret apparentemente spassose e ai monologhi dei comici: ovvero si celano dei battutisti e dei ghost-writer come il personaggio interpretato da Seth Rogen e anche tanta tristrezza dietro a delle persone pagate per far ridere. Sempre. Loro a questo giro non ci sono stati e hanno voluto fare qualcosa di diverso, con Adam Sandler che non è al suo primo ruolo drammatico (vedi l’ottimo Ubriaco d’amore di Paul Thomas Anderson e il mediocre Reign Over Me) ma probabilmente nel più riuscito della sua intera carriera, anche perché non è poi molto difficile scorgere lui stesso dietro al suo personaggio e ai film idioti che interpreta (e che lui stesso ha interpretato in carriera).

Nel resto del cast svetta un Seth Rogen sempre a suo agio quando si trova a fare lo sfigato impacciato, meno quando fa il supereroe come in The Green Hornet, e la solita compagnia di Apatow (la sua gnocca-moglie Leslie Mann, il suo ciccio-bombo Jonah Hill) a cui si vanno ad aggiungere l’uomo il mito Jason Schwartzman, la indie queen Audrey Plaza (vista anche in Scott Pilgrim Vs. the World e nella sitcom Parks and Recreation), lo spassoso Aziz Anzari di Mtv Human Giant, un inedito Eric Bana in versione comica che non ho capito se mi fa ridere o meno e la risposta è più un no che un sì, più una serie di personaggi nei panni di loro stessi come un incazzoso Eminem.
Questo è quanto succede quando la Funny People si rompe le scatole di far ridere e vuole far riflettere. E ci riesce anche alla grande.
O quasi.
(voto 7,5)

giovedì 24 marzo 2011

All we need is sex papparapapa

We Want Sex. Noi vogliamo il sesso. Una frase che se a dirla sono delle donne sono considerate delle sgualdrine, se a dirla sono degli uomini sono dei maniaci allupati, se a dirla sono degli uomini sessuali sono dei pervertiti, se a dirla sono delle donne sessuali è una figata. E se a pronunciarla sono dei pedofili? Tranquilli, vi trovate solo in un convento di preti cattolici.

Dopo questa pessima battutaccia d’apertura, passiamo a parlare più propriamente del film. We Want Sex.

We Want Sex
(UK 2010)
Titolo originale: Made in Dagenham
Regia: Nigel Cole
Cast: Sally Hawkins, Bob Hoskins, Rosamund Pike, Jaime Winstone, Geraldine James, Miranda Richardson, Andrea Riseborough, Daniel Mays, Rupert Graves, Andrew Lincoln
Genere: rivoluzionario
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Trama semiseria
1968. In Inghilterra la Ford ha 55mila operai, di cui solo 187 sono donne. Eppure è proprio da loro che parte la rivoluzione. Guidate da Rita O’Grady, una semplice addetta alla cucitura dei sedili, nel giro di poche settimane proveranno a far raggiungere alle donne la parità (o quasi) di paga nei confronti degli uomini. Mentre questi al massimo gridano “We want sex” sulla statale, le donne reclamano “We want sex equality”. La otterranno? Se conoscete la storia dei diritti femminili saprete già la risposta, se non la conoscete è a questo che servono i film storici. Mica a raccontarci la favoletta di Bertie il povero re balbuziente come ne Il discorso del re.

Recensione cannibale
“Quando sono cambiate le cose? Quando abbiamo in questo paese deciso di smettere di lottare?” chiede Rita O’Grady in un suo discorso. È quello che ci chiediamo anche noi, 40 e passa anni dopo, qui in Italia, oggi, mia cara Rita. Noi forse abbiamo smesso negli anni Ottanta, bombardati dalle tette & culi del Drive In, dalle telepromozioni Aiazzone sulle reti locali, dal sogno di giocare in borsa e diventare nel giro di poche ore ricchi e fichi come Gordon Gekko. Abbiamo smesso quando i potenti ci hanno fatto capire che contro di loro non abbiamo nessuna possibilità di ottenere qualcosa. Abbiamo smesso quando abbiamo realizzato che era più facile arrendersi e lasciarsi travolgere da questa società della finta opulenza.

“Noi non siamo divisi dal sesso. Ma divisi solo tra quelli disposti a subire le ingiustizie e quelli che sono pronti ad andare in battaglia per ciò che è giusto,” dice ancora Rita O’Grady, sempre nel 1968. È difficile stabilire cosa sia giusto o meno: è giusto ad esempio fare una guerra contro un dittatore che fino a poche settimane era il nostro migliore amico e alleato, a cui baciavamo allegramente le mani, a cui servivamo su un piatto d’argento 500 troi… hostess? Non so se sia giusto, anche perché di questa guerra non si capisce nulla e le informazioni in proposito sono troppo parziali, controllate, (volutamente?) caotiche, quindi è davvero complicato riuscire a dare una spiegazione a quanto sta succedendo. È giusto voler fermare un pazzo criminale, ma è giusto farlo alla cazzo di cane in quella che potrebbe trasformarsi in una guerra lunga e inutile quanto l’Afghanistan?

La battaglia cui si riferiva la O’Grady però era certamente giusta: stessa paga alle donne così come agli uomini. Una lotta simbolo del movimento femminista che però è oggi più che mai attuale applicata a qualunque tipo di ingiustizia e il cui spirito sembra rivivere nel “Se non ora quando?” visto nelle piazze italiane appena poche settimane fa; un’altra battaglia importante partita proprio dalle donne.
Il film We Want Sex ha il merito di rendere in pieno e con grande sforzo lo spirito di queste proteste, con un tocco non retorico ma anzi leggero e ironico (a tratti persino esilarante) come solo gli inglesi sanno essere. Nella parte di Rita O’Grady c’è un’eccellente Sally Hawkins, attrice che ho cominciato ad adorare da qui e di cui avrò ancora occasione di parlare per l’altra sua splendida prova in La felicità porta fortuna. La sua Rita (personaggio fittizio eppure incredibilmente vero) è una donna qualunque, non ha mai militato in nessuna forza politica, è combattiva come sono le nostre mamme (o almeno la mia). È una forza nuova, dirompente, in grado di travolgere i dirigenti della Ford che mai si sarebbero aspettati di essere messi in ginocchio da una (apparentemente) semplice casalinga ben poco desperate. E invece a cambiare la storia, a dare una svolta vera, sono spesso proprio quei personaggi che nessuno si aspetta.

Tra i pregi del film vi è anche una recitazione come al solito nelle produzioni british di classe superiore, con un Bob Hoskins in un ruolo insolitamente simpatico e un cast femminile notevole in cui spiccano Jaime Winstone (vista anche nella serie horror Dead Set), la disinibita Andrea Riseborough e la maestosa Rosamund Pike, che tra questo film e An Education sta ormai diventando la risposta inglese alla January Jones 60s di Mad Men. In un piccolo ruolo, come al solito da stronzo, c’è pure il protagonista di The Walking Dead Andrew Lincoln.

Se proprio vogliamo trovare un difetto al film, direi che io avrei giocato di più sulla musica 60s che invece ricopre un ruolo un po’ di secondo piano. Per il resto è una storia che suona una sveglia anche (e forse soprattutto) per noi uomini che qui dentro facciamo una figura davvero barbina, e regala una grande ispirazione e una voglia di cambiare tutte le cazzo di ingiustizie di questo mondo o perlomeno di questo cazzo di paese.

Per chiudere, visto che nel corso del post sono stato troppo serio, un altro (pessimo) momento battuta:
Che bello doveva essere vivere in un’epoca in cui le uniche escort di cui si parlava erano le Ford Escort...
(voto 7/8)

Canzone cult: Jimmy Cliff “You can get it if you really want”

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